Dopo i film degli anni ’40 della Universal Pictures, il filone di pellicole sulle mummie era tutt’altro che prosciugato. A “resuscitarlo” fu la Hammer Film Productions che, nel 1959, riprese le stesse sceneggiature hollywoodiane e ne ricavò dei remake più o meno ufficiali. La casa di produzione britannica è famosa soprattutto per gli horror prodotti dai ’50 ai ’70 e che hanno raccontato la storia di tutti i mostri dell’immaginario popolare. In modo particolare, con il passaggio dal bianco e nero al colore, tre opere sono diventate dei cult per il genere: “La maschera di Frankenstein” (1957), “Dracula il Vampiro” (1958) e proprio “La Mummia” (1959).
Questi tre film sono accomunati dalla regia di Terence Fisher, dalla sceneggiatura di Jimmy Sangster e dalle interpretazioni di Peter Cushing e di Christopher Lee, la cui parte più nota è probabilmente quella di Saruman ne “Il Signore degli Anelli”, ma che, con i suoi 196 cm di altezza, era perfetto per interpretare creature spaventose (fu per 12 volte un vampiro). Con il passare degli anni, però, la fortuna della Hammer è andata affievolendosi a causa dell’incapacità di stare al passo con il cinema americano e i suoi effetti speciali. Così, come nel caso dei tre sequel della mummia, abbiamo solo b-movies, tra il gore e il sexy, che non meritano di essere analizzati seriamente.
“La mummia” (1959)
La Hammer riesce a strappare un accordo alla Universal per l’utilizzo di sceneggiature del Ciclo di Kharis. Così, viene girato un re-remake de “La Mummia” del 1932 sfruttando personaggi e tematiche già visti in “The Mummy’s Hand”, “The Mummy’s Tomb” e “The Mummy’s Curse”.
Siamo in Egitto (o meglio, in uno studio con pietre di polistirolo, sabbia sul pavimento e fondali dipinti) nel 1895 e una famiglia di archeologi inglesi scopre la tomba della principessa Ananka, intatta da 4000 anni. John Bunning (Peter Cushing), suo padre Stephen e lo zio Whemple violano i sigilli della sepoltura non curanti degli avvertimenti di un egiziano, Mehemet Bey, che, in realtà, è un sacerdote del culto segreto del dio Karnak (sì, viene ancora riproposto questa inesistente divinità).
Il primo ad entrare nella sala del sarcofago è Stephen che, leggendo il “Rotolo della Vita” (simile al “Rotolo di Thoth” del film originale), risveglia la mummia di Kharis (Lee), sacerdote innamorato di Ananka e condannato ad essere imbalsamato vivo per aver cercato di riportarla in vita.
Anche in questo caso, viene riproposto un flashback con la morte della principessa, il corteo funebre, il sacrilegio e la punizione di Kharis che viene bendato e rinchiuso in una sorta di armadio a muro nella tomba. Per la scelta dei colori, questa scena mi ha ricordato molto il video di “Dark Horse” di Katy Perry… Comunque, a causa di questa visione terrificante, l’archeologo impazzisce e viene internato in un manicomio in Inghilterra, dove Bey, insieme alla mummia, arriva con l’intenzione di uccidere i tre membri della missione.
Nonostante la morte di quattro persone, la sorte peggiore e reale è toccata a Christopher Lee. L’attore, infatti, durante le riprese, si è ferito le gambe inciampando su tubi coperti dal fango, si è slogato la spalla sfondando una porta erroneamente bloccata, si è ustionato a causa degli effetti per i colpi di pistola e, dulcis in fundo, ha subito uno strappo alla schiena portando in braccio Yvonne Furneaux (anche ne “La Dolce Vita”) nella classica scena del rapimento della bella.
Alla fine, rimane in vita solo John, salvato dalla somiglianza della moglie Isobel con Ananka che distrae Kharis e lo fa scappare verso la palude con la sua “amata”. Ma, a differenza di “The Mummy’s Curse”, qui c’è il lieto fine: la ragazza si salva e la mummia sparisce nella melma crivellata di proiettili.
“Il Mistero della Mummia” (1964)
Come vedremo, i quattro film della Hammer non sono legati tra loro, quindi ho impropriamente parlato di sequel di “The Mummy”. “The Curse of the Mummy’s Tomb” (per una volta che c’è la parola maledizione nel titolo originale, in quello tradotto non la mettono) di Michael Carreras, pur avendo, per l’ennesima volta, come evento scatenante la scoperta di una tomba egizia e la conseguente maledizione, presenta una trama autonoma.
Si nota anche un cambiamento nella concezione di cinema horror con il sangue più visibile e le prime scene un po’ truculente (per la precisione, un paio di mani mozzate). L’atmosfera gotica della Londra del 1900 attenua anche le ricostruzioni storiche kitsch. Quindi, direi che questo è il film che preferisco tra i quattro descritti in quest’articolo (è disponibile in italiano su youtube).
Stessa scenografia iniziale, stessi fondali dipinti, stessa tomba con reperti “presi in prestito” dal corredo di Tutankhamon (ma almeno qui li hanno ricoperti di polvere e ragnatele), ma non abbiamo più né Kharis né Ananka. La sepoltura appartiene al principe Ra-Antef, la cui storia viene spiegata con un flashback. Ra è il figlio prediletto di Ramesse VIII (1127 a.C., quindi la datazione di 3000 anni presentata nel film è piuttosto accettabile) e fratello del malvagio Vi che, geloso del suo successo, lo fa apparire agli occhi del popolo come un pericoloso mago e costringe il padre ad esiliarlo nel deserto.
Nel Sahara, Ra incontra una tribù di nomadi e ne diventa il re acquisendo un antichissimo amuleto che ha il potere di risvegliare i morti. Quindi, al posto del classico rotolo di papiro, questa volta abbiamo un pendaglio con la forma che ricorda la Paletta di Narmer. Il suo regno, però, dura poco perché Vi manda dei sicari (che indossano la kefiah…) ad ucciderlo.
Il finanziatore della missione, il magnate americano Alexander King (Fred Clark), decide di sfruttare la scoperta mostrando il corredo in giro nel mondo (un po’ come è successo con il tesoro di Tutankhamon con Zahi Hawass). La prima tappa dell’esposizione itinerante è a Londra dove arriva anche il sarcofago con la mummia di Ra-Antef (Dickie Owen) che verrà resuscitata da un misterioso personaggio e che cercherà la vendetta sui profanatori della sua tomba. Vi ricorda qualcosa? Un mostro portato, con conseguenze disastrose, da un luogo esotico nella società civile per creare uno spettacolo sfruttando il clamore sulla gente: King Kong!
Intanto, due degli archeologi, John Bray (Ronald Howard) e sua moglie Annette Dubois, sono ospitati nella capitale britannica da Adam Beauchamp che, in realtà, è Vi reso immortale dalla maledizione del padre morente. Stanco della vita, è proprio lui che risveglia il fratello, l’unico in grado di ucciderlo e porre fine alla sua punizione. Quindi, per la prima volta, l’antagonista non è un sacerdote egizio, cosa che rende il film un po’ meno razzista degli altri.
Le novità riguardano anche i metodi adottati dalla mummia per far fuori le sue vittime: abbandonato il classico strangolamento, preferisce gettare persone dalle scale, annegare, calpestare teste e fracassare crani con oggetti contundenti (finalmente l’evoluzione in Mumia habilis). Nel finale, Adam/Vi seduce la “fedelissima” Annette con il solo scopo di portala con sé nell’Aldilà, ma Ra, vendicandosi del male subito, uccide solo il fratello e mette fine anche alla sua esistenza facendosi crollare addosso il soffitto.
“Il Sudario della Mummia” (1967)
Nel 1932, il truccatore Jack Pierce impiegava 8 ore a trasformare Karloff in un’icona del terrore. Trentacinque anni dopo, Eddie Powell deve solo infilarsi in un tutone e chiudere la zip, tra l’altro visibilissima. Questo è il sunto di ciò che fa la differenza tra il capolavoro di Freund e la “cagata pazzesca” (cit.) di John Gilling. La trama è sempre la stessa, gli oggetti di scena vengono tramandati negli anni, la qualità però peggiora.
I primi sette minuti narrano la nascita, nel 2000 a.C., dell’erede al trono Kah-To-Bey, figlio di Man-Tah. Qualche anno dopo, il faraone viene ucciso in una congiura di palazzo ordita dal fratello Ar-Man-Tah, ma riesce a far fuggire nel deserto il giovane principe con l’aiuto del servo Prem. La lunga marcia senza acqua né cibo, però, è fatale a Kah-To-Bey che viene sepolto da Prem in una grotta. La tomba è scoperta solo nel 1920 da una missione diretta da Sir Basil Walden (André Morell) e finanziata dal ricco Stanley Preston (John Phillips).
Data la situazione di emergenza appena descritta, il defunto non è mummificato, ma è semplicemente avvolto nel “sacro sudario” e ricoperto di sabbia, anche se l’archeologo dice che visceri e cuore (che non era conservato nei canopi) sono in una cassettina. Lo scarno corredo e i resti del principe vengono portati al Museo Egizio del Cairo, ma Ashmid, il beduino guardiano della tomba, ruba il sudario e recita le formule magiche che fanno tornare in vita Prem. Le sembianze della mummia sono state riprese da una realmente esistente di epoca romana esposta presso il British Museum e recentemente protagonista della mostra “Ancient Lives”. Forse l’avrete riconosciuta dalle basette.
L’essere comincia ad uccidere tutti coloro che hanno profanato la tomba del suo padrone (c’è la morte più cruda di tutta la serie di film dedicati alle mummie, cioè con l’acido da sviluppo fotografico), manovrato dalla madre di Ashmid che vede tutto dalla sua sfera di cristallo. La scia di cadaveri è interrotta solo quando Maggie Claire de Sangre, assistente del professor Walden, riesce ad impossessarsi del sudario e a pronunciare le parole in egiziano antico che bloccano la mummia e la polverizzano.
“Exorcismus – Cleo, la dea dell’amore” (1971)
A Seth Holt viene affidato l’ultimo lavoro della Hammer sulle mummie, anche se la classica iconografia del mostro bendato è sostituita dal corpo magicamente integro ritrovato nella tomba della crudele principessa Tera (d’altronde, sarebbe stato proprio un peccato nasconderla con un costume). Ma partiamo dalla traduzione non proprio letterale del titolo originale “Blood from the Mummy’s Tomb”.
1) Exorcismus: non c’è traccia di esorcismi, ma il film è stato distribuito in Italia nel 1975, due anni dopo dell’uscita de “L’Esorcista” di cui si voleva sfruttare il successo; 2) Cleo: come anticipato, la cattiva della situazione si chiama Tera e non Cleo, ma, anche in questo caso, si è voluto cavalcare l’onda lunga della “Cleopatra” (1963) di Liz Taylor; 3) la dea dell’amore: Tera è una principessa e tutt’altro che “amorevole” visto che prima seduce il padre faraone e poi lo fa uccidere insieme a tutti i suoi collaboratori.
La storia è liberamente ispirata al romanzo di Bram Stoker “Il gioiello delle sette stelle” (1903) e verrà ripresa nel 1980 con “Alla 39ª Eclisse”. Agli inizi degli anni ’70, la Hammer è ormai in declino e, per cercare di trattenere il pubblico che cominciava ad abituarsi ad horror di ben altro tenore (nel ’68 era uscito “La notte dei morti viventi” di Romero), aggiunge un pizzico di erotismo che non rende più piccante la solita minestra riscaldata. L’archeologo britannico Julian Fuchs (Andrew Keir) scopre la tomba di Tera e ne diventa ossessionato a tal punto da portare a Londra tutto il corredo funebre e da costruire una cappella segreta sotto la sua abitazione per conservarlo.
Nel momento stesso che viene aperto il sarcofago, nasce la figlia di Fuchs che verrà impossessata dallo spirito della principessa. Come detto, la “mummia” è perfettamente conservata (e l’attrice Valerie Leon non fa niente per nascondere i movimenti della respirazione), tranne che per una mano mozzata dai sacerdoti che usano una paletta protodinastica come tagliere (aspettatevi delle scene degne della Famiglia Addams). Diciotto anni dopo, Margaret è maggiorenne ed è identica al corpo imbalsamato. Così, contro la sua volontà, va alla ricerca degli altri tre membri della missione che posseggono i tre sacri oggetti, il cobra, il gatto e il teschio di sciacallo, fondamentali per far risuscitare Tera.
Tutti muoiono sgozzati da un misterioso vento e gli amuleti tornano al cospetto di “Cleo” che risorge, almeno fino all’intervento di Fuchs che la pugnala scatenando un crollo che distrugge la cripta. Il finale lascia gli spettatori con un dubbio: in un ospedale, l’unica sopravvissuta è finalmente ricoperta da bende, anche se da ingessatura, ma è Margaret o Tera?