«Dobbiamo trovare una via d’uscita!», gridarono gli spettatori nelle sale…
Per Halloween ho deciso di recensire un horror egizio e, sfortunatamente, ho scelto il più recente: “The Pyramid” (titolo tradotto in Italia, questa volta letteralmente, con “La Piramide”), film della fine del 2014 che è riuscito nell’insperato intento di strappare a “Natale sul Nilo” la palma di peggiore pellicola della rubrica “Blooper egittologici”.
L’opera prima di Grégory Levasseur (meglio avesse continuato a fare solo lo sceneggiatore) è un falso documentario ambientato nell’Egitto post-rivoluzionario del 2013. Una troupe televisiva arriva nel Paese per girare un servizio su una stupefacente scoperta compiuta da una missione americana: una nuova piramide! Così, archeologi e giornalisti entrano nella struttura, ma vi incontreranno presenze malvagie (udite, udite, non si tratta di una mummia!). Il found footage con le riprese in prima persona (il mockumentary è piuttosto inflazionato nei film del terrore), location misteriosa, spazi angusti e labirintici, creature orribili sfuggenti sono gli ingredienti perfetti per incutere una paura claustrofobica. O meglio, avrebbero potuto esserlo perché il risultato è un andirivieni noiosissimo di 90 minuti dei protagonisti che corrono nel buio (ho perso qualche diottria nel vedermelo) da un angolo all’altro della piramide prima che vengano fatti fuori uno dopo l’altro da mostri realizzati (male) in CGI. Gli attori hanno espressioni facciali da soap argentina, si avventurano in discorsi demenziali e reagiscono alle situazioni in un modo per niente naturale (es. mentre uno dei personaggi sta morendo con un masso che gli spappola la gamba, si continua a parlare di geroglifici). Da questa premessa, sembrerebbe che stia parlando di un prodotto di serie B dell’Asylum, invece si tratta di una produzione da 6,5 milioni di dollari della 20th Century Fox.
Ho già cominciato con gli spoiler dall’introduzione, ma chi se ne frega! Tanto si sa che, negli horror, la bella protagonista è l’unica che si salva e lo scemo di turno muore per ultimo per garantire al film qualche battuta che allenti la tensione. Quindi, partiamo con la storia.
Il Dott. Miles Holden (Denis O’Hare) e sua figlia Nora (Ashley Hinshaw) scoprono 400 chilometri a sud del Cairo un’intera piramide sepolta nel deserto tramite immagini satellitari e altri sistemi futuribili. Quest’idea sarà sicuramente nata dalla bufala circolata nel 2012 di una autodefinitasi “satellite archaeology researcher” che sosteneva di aver individuato quattro piramidi, in realtà conformazioni naturali, con Google Earth. È evidente quanto possa essere improbabile che una costruzione alta 180 metri (quella di Cheope raggiunge “solo” i 146) e perfettamente conservata possa essere ricoperta dalla sabbia senza il minimo dislivello sul terreno. La particolarità del monumento è la base triangolare; per questo, il Dott. Holden l’attribuisce a quella di Akhenaton descritta dalle fonti, mentre la figlia è convinta che sia molto più antica. Bisogna ricordare, però, che l’utilizzo di questa tipologia di grandi tombe reali termina ben quattro secoli prima dell’età amarniana e, ovviamente, non esiste alcun testo che parli di una “piramide perduta”. I super sensori del satellite, a quanto pare, riescono a penetrare per metri anche nella roccia, così si scopre uno strano tunnel che, dal pyramidion, gira attorno alla struttura e arriva all’entrata nella base. Ma, nell’aprire l’ingresso, i presenti vengono investiti da una nube verde tossica (uno dei tanti cliché che caratterizza l’accezione popolare dell’antico Egitto); quindi, si manda avanti “Shorty”, un rover della NASA ispirato ai robot, Upuaut e poi Djedi, usati per indagare i canali di areazione della Piramide di Cheope. Una volta dentro, però, il mezzo perde il contatto radio a causa, secondo la squadra, di qualche cane randagio.
Non è facile lasciare un’attrezzatura da tre milioni di dollari sotto terra e Michael, l’ingegnere responsabile, decide di andarla a recuperare, seguito dagli Holden, dalla giornalista Sunni e dal cameraman Fitzie. Il gruppo, nonostante sia equipaggiato di tutto punto (il kit “archeologico” prevede anche un cavo d’acciaio, respiratori, luminol e torcia UV), si perde tra i cunicoli e, ben presto, si accorge che Shorty non era stato danneggiato da qualche cane. Uno dopo l’altro muoiono a causa di trappole (altro cliché), di “gatti sfinge” cannibali messi lì da millenni come guardiani della piramide (eppure gli Sphynx sono così dolci) e di qualcosa di decisamente più grosso. Solo quando rimangono in due (come anticipato, la bella e lo scemo), si capisce che la creatura è addirittura Anubi. Nella camera funeraria, infatti, Nora legge sul sarcofago che quella è la tomba di Osiride, costruita dagli antichi Egizi per imprigionare il sanguinario dio sciacallo. Anubi, per seguire il padre nell’Aldilà, ha bisogno di trovare un cuore puro, così continua a mietere vittime legandole a una bilancia, strappando loro il muscolo cardiaco e pesandolo con una statuetta di Maat. Si tratta del giudizio dei defunti descritto nel capitolo 125 del Libro dei Morti. Tra gli altri, anche Miles subisce questa sorte e, quando Anubi, erroneamente definito “Il divoratore”, mangia il suo cuore corrotto, si mummifica all’istante. Proprio qui sta l’errore più grande del film. Nella psicostasia, è effettivamente il dio a mettere sulla bilancia cuore e piuma, ma, in caso di esito negativo, è Ammit a papparsi l’anima. Eppure, poco prima, il gruppo era passato proprio davanti a una rappresentazione della “pesatura dell’anima” in cui compare anche la “Grande divoratrice”, mostro ibrido formato da parti di coccodrillo, leone e ippopotamo (vedi in basso). In ogni caso, Anubi cattura anche Nora che, però, riesce a slegarsi e a scappare attraverso un condotto fin quasi all’imbocco del tunnel (ah, dimenticavo, scavato da massoni alla fine dell’800…). Qui, stremata, viene raggiunta da un bambino che raccoglie la sua telecamera e… finale che lascia campo a un seguito, purtroppo.
Alcune cose non dovrebbero mai essere scoperte, come certi film.