Bufale eGGizie*: la maledizione di Tutankhamon

Bufale eGGizie*: la maledizione di Tutankhamon - Djed Medu

 

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

 

Il 2015 è stato senza dubbio l’anno di Tutankhamon e sono sicuro che questo trend sarà confermato anche per i prossimi mesi con il proseguimento delle indagini sulle camere nascoste. Quindi, colgo l’occasione per aprire il 2016 chiarendo alcune leggende metropolitane che circolano da quasi un secolo attorno alla KV62 e che, tutt’oggi, sono ancora materia prima per libri e documentari. La straordinaria importanza del ritrovamento della tomba scatenò da subito una vera e propria tutmania che influenzò l’arte e la moda dell’epoca. Ovviamente, una sepoltura intatta piena di tesori spettacolari e migliaia di altri oggetti mai toccati da millenni non poteva non attirare l’attenzione dei giornali che, ben presto, cominciarono a pubblicare strane notizie che accrebbero in modo esponenziale la curiosità dei lettori: nacque così la maledizione di Tutankhamon.

Prima di arrivare alla maledizione, però, va fatta una veloce carrellata degli eventi che portarono alla scoperta. Il tutto partì dai problemi fisici di George Edward Stanhope Molyneux Herbert, V conte di Carnarvon (che, per ovvi motivi, da ora in poi chiamerò solo Lord Carnarvon), costretto a recarsi in Egitto fin dal 1903 per svernare nei mesi più freddi e alleviare una grave affezione respiratoria. Qui, dotato di un forte amore per l’antiquariato, fondi illimitati e tanto tempo libero, si mise a scavare per conto suo ma con scarsi risultati; così, su consiglio del direttore generale delle Antichità egizie Gaston Maspero, si affidò a un giovane Howard Carter che, a causa di un incidente diplomatico con alcuni turisti francesi, era rimasto senza impiego. I due riuscirono a ottenere una concessione per lavorare nella Valle dei Re solo nel 1917 e passarono anni senza soddisfazioni… fino al 4 novembre 1922 e a quegli scalini che condussero alla più grande scoperta archeologica del XX secolo. La vera portata dell’evento, però, fu chiara solo il 26 novembre quando Carter, aprendo un piccolo varco nella seconda porta sigillata, esclamò la celeberrima frase: «Yes, it is wonderful». Parole diffuse al mondo per la prima volta il 30 novembre dal giornalista Arthur Merton sulle pagine del Times a cui Lord Carnarvon poi venderà, il 9 gennaio, l’esclusiva per 5000 sterline e il 75% di tutti i profitti derivanti dalla vendita degli articoli all’estero. Il resto della stampa era costretto a pubblicare quasi sempre notizie di seconda mano e lo stesso governo egiziano si ritrovò nella paradossale situazione di leggere su quotidiani stranieri ciò che accadeva sul proprio territorio nazionale. Come anticipato, Tutankhamon si rivelò un vero business da subito e gli altri giornali fecero di tutto per spartirsi la torta dei guadagni, come raccontare misteriosi avvenimenti accaduti ai membri della missione archeologica. Ad esempio, quando la maledizione non aveva ancora mietuto alcuna “vittima”, il New York Times riportava che, il giorno dell’apertura della tomba, il canarino di Carter era stato inghiottito da un cobra reale (qui l’articolo del 22 dicembre 1922). Non è chiaro se a raccontare questa storia sia stato James Henry Breasted, che aveva anch’egli lavorato alla KV62, ma è sicuro che un altro egittologo, Arthur Weigall, l’abbia interpretata come un presagio nefasto. Senza ammetterlo direttamente, insinuando il dubbio come fanno oggi alcune trasmissioni televisive, scrisse che si trattava di una strana coincidenza, soprattutto se riportata al fatto che Meretseger, la dea protettrice della Valle dei Re, aveva proprio le fattezze del rettile. Purtroppo, la cosa diede una certa credibilità a tutti gli eventi sovrannaturali seguenti proprio perché confermata da uno studioso del campo; ma pochi sanno che Weigall era stato assunto dal Daily Mail come corrispondente a Luxor per seguire le fasi dello scavo. Evidentemente, in questo caso, il professionista aveva anteposto il denaro alla deontologia.

Era solo la prima avvisaglia che esplose in una serie di titoli sensazionalistici (come quello in foto del Detroit News del 6 aprile) dopo la morte di Lord Carnarvon avvenuta il 5 aprile 1923 a causa di una puntura d’insetto sul volto tagliata durante la rasatura della barba che portò a setticemia e a polmonite. Due settimane prima, quando il conte era già ricoverato in condizioni critiche in un ospedale del Cairo, la scrittrice Marie Corelli pubblicò una lettera sul magazine New York World :

«I cannot but think some risks are run by breaking into the last rest of a king in Egypt whose tomb is specially and solemnly guarded, and robbing him of his possessions. According to a rare book I possess … entitled The Egyptian History of the Pyramids [an ancient Arabic text]… the most dire punishment follows any rash intruder into a sealed tomb. The book names “secret poisons enclosed in boxes in such wise that those who touch them shall not know how they come to suffer”. That is why I ask, Was it a mosquito bite that has so seriously infected Lord Carnarvon?»

 

I giornali non aspettavano altro e rilanciarono il testo ovunque. Quando poi anche Arthur Conan Doyle si occupò dell’accaduto, fu lanciata ufficialmente la Maledizione del faraone. L’autore di Sherlock Holmes aveva già parlato della morte di un suo amico, il dottor Bertram Fletcher Robinson, secondo lui dovuta a qualche male che lo avrebbe colpito dopo aver compiuto degli studi su una mummia del British Museum. Così, intervistato da un giornalista del Times anche sulla dipartita del conte, aggiunse che poteva essere stata causata da una “maledizione” o comunque dall’intervento di qualche “spirito elementale” invocato a protezione della tomba dagli antichi sacerdoti. In tempi molto più recenti, alcuni hanno addirittura collegato questa morte con quella della contessa Vacca Augusta avvenuta nel 2001 nella Villa Altachiara di Portofino, fatta costruire nel 1874 per Carnarvon e quindi considerata maledetta… Tornando a noi, poco contava che Doyle si guadagnasse da vivere inventando storie fantastiche (fra l’altro, in “Lot n°249” del 1892, scrisse proprio di una mummia che si risveglia a Oxford dopo la lettura di una formula magica su un papiro); titoli con “The Curse of King Tut” cominciarono a vedersi associati a sempre più numerose scomparse o fatti misteriosi: improvvisi blackout al Cairo e a Londra, una macchia scura sulla guancia della mummia di Tut nello stesso punto in cui Carnarvon era stato punto, la morte del cane del conte e la scoperta di maledizioni legate ad Anubi. Secondo i quotidiani dell’epoca, “La morte scenderà su agili ali per colui che profanerà la tomba del faraone”, o varianti simili, sarebbe stato il testo inciso su una delle porte sigillate che avrebbe spinto gli operai a mettere in guardia Carter. Tralasciando il fatto che dubito che i locali sapessero leggere l’arabo, figuriamoci il geroglifico, non esiste alcuna iscrizione del genere nella tomba di Tutankhamon. Per rendersene conto, basta vedere le foto originali di Harry Burton.

Sebbene esistessero rare formule d’esecrazione nei confronti dei profanatori di tombe, leggende nate attorno a questo tipo di maledizioni nacquero ben prima della decifrazione della lingua egiziana da parte di Champollion e quindi della possibilità di leggerne il contenuto. Forme di superstizione legate ai luoghi di sepoltura sono esistite fin dall’antichità non solo in Egitto e si sono evolute nei racconti del terrore della, per certi versi macabra, epoca vittoriana e nei primi film horror con la nascita del cinema. “La mummia” del 1932 con Boris Karloff sfruttò il clamore che ancora non si era spento dieci anni dopo la scoperta di Carter, ma ancor prima erano stati girati “Die Augen der Mumie Ma” nel 1918 e il cortometraggio Cléopâtre” addirittura nel 1899. Quindi, la Maledizione di Tutankhamon è nata da un background di credenze già esistenti e non dalla conoscenza degli antichi testi egizi.

Il fattore sovrannaturale che colpì maggiormente il pubblico fu la lunga serie di morti inspiegabili tra le persone che, per un verso o per l’altro, avevano avuto un ruolo nella scoperta. Malattie, avvelenamenti, omicidi, incidenti erano riportati quotidianamente fino a superare le 20 scomparse dal 1923 al 1935, come quella del coautore con Carter della prima pubblicazione, Arthur Cruttenden Mace, o il curatore della collezione egizia del Louvre, Georges Aaron Bénédite, entrambi deceduti nel 1926. Gli scettici più frettolosi hanno provato a giustificare queste dipartite con l’istoplasmosi, cioè l’infezione polmonare provocata dall’inalazione di spore velenose contenute nel guano dei pipistrelli. Infatti, un tale pericolo è concreto per chi lavora in  ambienti sotterranei, ma la tomba era sigillata e non presentava resti di volatili. Allora come spiegare questo concatenamento di morti? Più semplicemente, basta scorrere la lista delle vittime della maledizione e fare un paio di calcoli. Qualcuno ci ha pensato prima di me. Ad esempio, Mark Nelson, in un articolo pubblicato nel 2002 sul British Medical Journal, ha evidenziato che tra i 25 europei presenti all’ingresso nella tomba, all’apertura del sarcofago o all’autopsia della mummia, l’età media di morte supera i 70 anni dopo un ventennio circa dal “contatto”. Carter, primo indiziato per un’eventuale vendetta del faraone, morì a 65 anni nel 1935; Lady Evelyn, figlia del conte, arrivò al 1980; Richard Adamson, capo sicurezza della spedizione, addirittura al 1982. Appare evidente, quindi, che si trattasse solo di trovate pubblicitarie, di espedienti degli editori per far vendere più copie in mancanza di notizie vere monopolizzate dal Times. Ma i giornalisti non si fermarono alla fantasiosa interpretazione esoterica di morti vere; spesso, inventarono quelle di personaggi mai esistiti o scrissero “coccodrilli” per uomini vivi e vegeti. Avranno fatto gli scongiuri, ad esempio, il chimico forense Alfred Lucas e l’anatomista Douglas Derry, fatti fuori da diversi pennivendoli, compreso Weigall, subito dopo la loro partecipazione all’autopsia dell’11 novembre 1925 e che, invece, vissero rispettivamente fino a 78 (1945) e 87 anni (1969).