(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’antico Egitto che circolano nel web e non solo)
Negli ultimi giorni, su quotidiani nazionali (il Messaggero e il Giornale) e diversi siti web, sta circolando una roboante notizia sulla presunta scoperta della causa delle misteriosi morti imputate alla maledizione di Tutankhamon. L’eccezionale rivelazione sarebbe il frutto di uno studio pubblicato sul Journal of Scientific Exploration, che ha avuto ampia diffusione dal 26 aprile grazie al Daily Mail. Secondo l’autore, Ross Fellowes, gli sventurati membri della missione di Howard Carter, così come molti altri colleghi egittologi, sarebbero stati avvelenati da un’eccessiva esposizione a radiazioni da uranio. Sarebbe stato quindi fatale il tempo passato in ambienti sotterranei sigillati da millenni con all’interno materiale radiattivo.
Finalmente una spiegazione scientifica a dipartite imputate a fenomeni paranormali! Non proprio…
Già da un’occhiata preliminare, si palesano le prime red flag: parole come “maledizione” o “mistero” nel titolo, la diffusione tramite poco attendibili tabloid inglesi e soprattutto la risposta alla domanda sbagliata. Più che chiedersi perché siano morte quelle persone, va prima appurata la correlazione tra la loro dipartita e la scoperta della tomba di Tutankhamon. E quando una notizia è sospetta, è cosa buona e giusta controllate le fonti originali, anche se sono articoli scientifici.
Va premesso infatti che non è tutto oro il paper che luccica. Esistono infatti riviste chiamate “predatorie” che danno spazio a chiunque, previo pagamento, senza verificare la valenza scientifica degli articoli. Inoltre, qualche errore può sfuggire perfino alle riviste di fascia A e al sistema della revisione tra pari, cioè la valutazione critica e anonima di acclarati esperti del settore a cui gli editori inviano i manoscritti ricevuti.
L’articolo in questione, “The Pharaoh’s Curse: New Evidence of Unusual Deaths Associated With Ancient Egyptian Tombs”, è liberamente consultabile, quindi tutti voi potete verificare di persona: https://doi.org/10.31275/20242855.
Leggendo il pezzo è subito chiaro che Tutankhamon sia solo l’amo che tutti, dal New York Post all’ultimo dei blog generalisti, hanno usato per acchiappare click. Lo studio, infatti, tratta solo marginalmente la scoperta della KV 62; anzi, amplia di molto il campo utilizzando presunte prove filogiche, archeologiche, fisiche, statistiche e mediche per avvallare le tesi finali. Più che alle sepolture della Valle dei Re, l’attenzione dell’autore si rivolge alle mastabe di Antico Regno per cui è proposta una funzione diversa al parere ‘ortodosso’ degli egittologi. Queste strutture – note con il nome arabo che è traducibile con “panche” proprio per la loro forma – sarebbero invece bunker utilizzati per lo stoccaggio di scorie radiattive. Fellowes mette le mani avanti premettendo che lo scopo dell’articolo non è quello di capire chi, come e perché abbia utilizzato una tecnologia così fuori dal tempo. La presenza di questo materiale letale avrebbe di conseguenza fatto ammalare e morire improvvisamente decine e decine di egittologi che, negli ultimi due secoli, hanno lavorato in contesti contaminati. E non è tutto; un’altissima incidenza di tumori ematopoietici – che colpiscono le cellule del midollo osseo, il sistema linfatico e il sistema immunitario – sarebbe stata riscontrata sia tra gli antichi Egizi, quindi vittime delle loro stesse attività, sia tra gli attuali abitanti del paese, a riprova della durata millenaria delle radiazioni. In realtà, il radon – gas radioattivo generato dal decadimento dell’uranio delle rocce e del suolo – è da tempo utilizzato per spiegare le strane morti – spoiler: mai avvenute – di chi fu presente all’apertura della tomba di Tutankhamon; la novità è che Fellowes asserisce che tale radioattività non sia da imputare a cause naturali, ma al consapevole immagazzinamento di torte radiogene, le cosiddette “yellowcake U-235”, anche per punire eventuali tombaroli.
Già la sola fantasia di queste conclusioni basterebbe a far storcere il naso ai più, ma occorre comunque effettuare una valutazione più accurata per chi non abbia modo (o voglia) di approfondire di persona. Avverto fin da subito che l’analisi sarà lunga, ma colgo l’occasione per dimostrarvi come comportarsi di fronte a titoli clickbait e a notizie dubbiose. In generale, l’articolo soffre dei classici difetti dei lavori amatoriali: non tutte le affermazioni sono corroborate da prove o riferimenti bibliografici; i libri e gli articoli citati sono quasi tutti datati; si nota una diffusa reiterazione del “cherry picking”, cioè la raccolta dei soli dati utili a confermare la teoria proposta; fonti filologiche e iconografiche appartenenti a diversi periodi storici sono accostate in maniera decontestualizzata; ci si basa troppo su supposizioni o sensazioni soggettive, scadendo nell’assonanza tra etimologie e nella pareidolia. La ricerca appare limitata al materiale disponibile online, quindi coincidente molto spesso in volumi vecchissimi il cui copyright è scaduto e, per questo, liberamente consultabili in piattaforme come Google Libri o archive.org. È emblematico l’utilizzo di volumi ultracentenari di Wallis Budge – parodizzato perfino in Stargate – per la traduzione del Libro dei Morti, quando ci sarebbero opere molto più recenti e corrette. Un vero studio scientifico deve tener conto di tutti gli aggiornamenti e non può essere svolto solo di fronte a uno schermo: bisogna alzarsi dalla poltrona e andare in biblioteca, anzi, in più biblioteche.
Entrando nello specifico, sfato subito la della maledizione di Tutankhamon perché ho già dedicato un articolo all’argomento. Come premesso all’inizio, non serve arrovellarsi il cervello per cercare una spiegazione sensata a fatti che non si sono mai verificati. Malattie, avvelenamenti, omicidi, incidenti, accadimenti paranormali furono semplicemente fake news di giornalisti ed editori senza scrupoli che cercarono espedienti per vendere più copie in mancanza di notizie vere monopolizzate dal Times, a cui Lord Carnarvon, il finanziatore della missione di Carter, aveva venduto l’esclusiva. D’altronde Mark Nelson, in un articolo pubblicato nel 2002 sul British Medical Journal e citato anche da Fellowes, ha evidenziato che tra i 25 europei presenti all’ingresso nella tomba, all’apertura del sarcofago o all’autopsia della mummia, l’età media di morte supera i 70 anni e un ventennio circa dopo il “contatto”. Carter, primo indiziato per un’eventuale vendetta del faraone, morì a 65 anni nel 1935; Lady Evelyn, figlia del conte, arrivò al 1980; Richard Adamson, capo sicurezza della spedizione, addirittura al 1982.
Fellowes include comunque molti di questi, Carter e Carnarvon compresi, tra le 119 morti sospette di egittologi, antiquari, disegnatori, funzionari che hanno lavorato in Egitto dal 1800 a oggi. Evidentemente scettico di fronte a diagnosi di ictus, attacchi di cuore, polmoniti, dissenteria, malaria e altre febbri esotiche, l’autore sospetta che tutti questi personaggi, raccolti tra un record totale di 505 casi, siano deceduti a causa delle radiazioni. Tutto ciò sulla base di ricerche fatte online (di cui però non si cita la fonte) e di supposizioni. Le morti premature – comunque in esponenziale diminuzione, non segnalata, con l’avanzare dei decenni – sono perfettamente comprensibili in un mondo così difficile come quello dell’Egittologia dei primordi. Tra caldo, viaggi estenuanti, animali velenosi, condizioni igieniche precarie è normale che l’aspettativa di vita fosse più bassa rispetto a chi restava in Europa. Scavare in Egitto resta ancora oggi un lavoro fisicamente impattante e lo dico per esperienza personale. In ogni caso, a testimonianza della superficialità della ricerca, faccio notare ad esempio l’assenza in lista di Giuseppe Raddi, botanico della missione Franco-Toscana del 1828-29, che pur avrebbe fatto comodo allo scopo dello studio essendo morto di dissenteria a Rodi mentre tornava d’urgenza in patria. Per l’alta incidenza dei tumori nell’attuale popolazione egiziana, invece, Fellowes cita alcuni articoli scientifici da cui però trae solo alcuni dati, rigettando – senza argomentare – la causa della malattia che gli scienziati imputano allo stile di vita moderno, soprattutto alla dieta, e a inquinanti industriali.
Il culmine dell’immaginazione si raggiunge con piroette etimologiche atte a dare un nuovo significato a parole antico-egiziane o arabe. Il termine mastaba – come detto “panca” – in origine sarebbe stato tradotto non con l’attuale inglese bench ma con l’arcaico benc – cito – “imparentato con il latino banc, banque, o il bunke celtico, da cui si ottengono banca e bunker”. Ecco quindi che mastaba sarebbe in qualche contorto percorso filologico, il retaggio dell’utilizzo originale delle strutture funerarie, cioè quello di sigillare materiale pericoloso. D’altronde, nello stesso errore incorrevano anche gli storici ottocenteschi che cercavano l’origine dei popoli antichi confrontando toponimi simili. Ancora più forzata è l’interpretazione delle “torte di zafferano” – nominate, secondo il testo di Budge (1895, pp. 52-3), nel capitolo 17 del Libro dei Morti – con le cosiddette yellowcake, cioè il prodotto finale dei processi di concentrazione e purificazione dei minerali estratti che contengono l’uranio. Il solo colore dell’ingrediente di una delle offerte funerarie basterebbe in tal senso a pensare allo stoccaggio di materiale grezzo di uranio-235 che, tuttavia, dovrebbe essere arricchito “a una concentrazione più elevata,
che ha la forma di un liquido lattiginoso refrigerato” per portare a una rezione nucleare. A questo punto, quindi, Fellowes sfrutta indiscriminatamente un altro corpus di formule funerarie, i Testi dei Sarcofagi, in cui le offerte di latte indicherebbero proprio quest’operazione. Da qui in poi, si sussegue una serie di allusioni sparse tra Testi delle Piramidi, dei Sarcofagi e Libro dei Morti che sarebbero da leggere come velati riferimenti a “effluvi” radioattivi, contaminazioni ed effetti negativi. Il problema a monte è proprio l’utilizzo di pubblicazioni ormai superate. Il presunto ingrediente giallo è in realtà la faience, il tipico materiale vetroso con cui gli Egizi realizzavano contenitori, amuleti, statuine e altri oggetti. Quindi msy.t m ṯḥn.t non è da tradurre con “torte di zafferano” ma con “piatti di faience” (Faulkner 1998, pl. 10; Quirke 2013, p. 62).
Non manca ovviamente la numerologia più spinta, freccia sempre presente all’arco dagli pseudoarcheologi che fanno coincidere cifre casuali con messaggi criptati. La quantità di prodotti offerti in 2, 3 o 5 porzioni (non sempre in questo ordine, ma chi se ne frega) sarebbe un chiaro riferimento l’isotopo fissile 235U, in grado di sviluppare una reazione a catena di fissione nucleare. Il numero di alcuni volatili raffigurati nei rilievi delle mastabe – 111.200 colombe e 120.000 o 121.200 anatre (la cifra ovviamente quando non coincide dipende da errori di copiatura di scribi e artigiani) – attraverso un calcolo piuttosto approssimativo suggerirebbe il tempo di decadenza di due tra i rifiuti radiattivi più problematici, il tecnezio e il cesio. Questo perché l’uccello con cui è raffigurato il ba, indicherebbe le radiazioni beta, così come il ka sarebbe simbolo delle onde gamma. Le anime/spiriti che lasciano il corpo di Osiride sarebbero da interpretarsi quindi con il rilascio di raggi dannosi da scorie nucleari.
Ma com’è possibile che un articolo pseudoarcheologico sia stato pubblicato su una rivista scientifica?
Il Journal of Scientific Exploration: Anomalistics and Frontier Science, già dal sottotitolo e da quanto scritto nelle linee guida, palesa subito criticità. Accetta infatti articoli di diverse discipline “valutati con logica e apertura mentale per presentare al mondo accademico ipotesi provocatorie che altrimenti verrebbero rifiutate dalla maggior parte delle riviste convenzionali”. Basta scorrere gli indici per leggere studi su ufologia, parapsicologia, reincarnazione, medium, fantasmi, negazionismo, medicina alternativa, criptozoologia, esperienze di pre-morte. Non mancano critiche no-vax alla gestione del Covid-19 e perfino il debunking di debunker del mostro di Lock Ness e altri mostri. Insomma, il JSE sembra come minimo dar voce alle “fringe sciences”, cioè controverse teorie di confine, anche se la filosofa della scienza Noretta Koertge ci è andata ben più pensante definendo la rivista come un “tentativo di istituzionalizzare la pseudoscienza”. E in effetti, a fronte di un formato accademico e al dichiarato utilizzo della peer-review, le tematiche sono più che dubie. Insomma, arroccarsi sulla torre di avorio è sempre stato un errore degli studiosi, ma è pur vero che, citando un aforisma amato da Piero Angela, «bisogna avere sempre una mente aperta, ma non così aperta che il cervello caschi per terra».
Dell’autore, invece, si sa molto meno. Non si conosce l’istituzione a cui è affiliato (o era, visto che è definito “in pensione” sul sito del JSE) né la disciplina in cui è specializzato. Cercando sul web risultati precedenti al marzo 2024, non compaiono altre pubblicazioni o notizie in generale su Ross Fellowes. A suo nome, c’è un profilo vuoto di academia.edu in cui sono elencati tra gli interessi “archeologia”, “archeologia del Pacifico” e “archeologia dei paesaggi”. Non che un’opera prima debba per forza essere da buttare, ma, a meno che abbia utilizzato un altro nome, per uno studioso a fine carriera la cosa è piuttosto sospetta. Ed effettivamente, potrebbe trattarsi proprio di uno pseudonimo. Per puro caso, ho trovato un suo possibile vecchio commento del 2013 in cui, sotto un articolo sugli Annunaki, un utente con il suo stesso nome scrive di apprezzare i lavori del famigerato sostenitore della “teoria degli antichi astronauti” Zecharia Sitchin e, per approfondire l’argomento, consiglia un libro di un certo William Gleeson. Seguendo il link verso il blog pseudoarchologico di Gleeson, mi sono accorto che l’avatar – un moai dell’Isola di Pasqua (ricordate l’archeologia del Pacifico?) con gli occhi modificati – era lo stesso. In sostanza, sembra un’auto-marchetta mascherata. E c’è di più! La stessa immagine è utilizzata nell’account su Quora di un William Gleeson, “ex consulente biotecnologico e scettico”, laureato in Biotecnologie nel 1975 presso la University of Auckland. Quora è una piattaforma in cui si pubblicano domande e risposte su qualsiasi argomento e Gleeson sembra essere particolarmente interessato a teorie alternative sull’antico Egitto. Tra le centinaia di contenuti a suo nome, spiccano riferimenti alla maledizione dei faraoni, alla conoscenza dell’uranio in antichità (1, 2, 3) e un post – riproposto anche su academia.edu – sulla funzione alternativa delle mastabe. Qui si trovano gli stessi temi, immagini (ad es. le figg. 3-5) e interi paragrafi pubblicati nell’articolo di Fellowes. Mi sembra quindi evidente che Gleeson e Fellowes siano la stessa persona.
Al di là dell’identità nascosta di Fellowes (probabilmente è questo il vero nome), si ripresenta il solito problema delle discipline umanistiche – archeologia in particolare -, viste come un passatempo per pensionati che nella vita si sono occupati di tutt’altro. Lontani dall’umanesimo rinascimentale in cui alcuni eruditi si barcamenavano con successo in qualsiasi campo dello scibile umano, dalla letteratura alla matematica, dall’architettura all’anatomia, la moderna ricerca scientifica si è evoluta verso una netta specializzione del sapere. Ormai i tuttologi hanno senso solo nei talk show televisivi. E ben vengano gli egittofili – d’altronde non farei divulgazione altrimenti -, ma per scrivere un articolo scientifico bisogna avere una preparazione e soprattutto un metodo accademico che la sola passione non può sostituire. A questo dovrebbero pensare anche i giornalisti e sedicenti divulgatori che continuano a proporre “scoop” sensazionalistici senza verificare l’attendibilità delle notizie pubblicate e non rivolgendosi ai veri esperti nel campo.