“Il Faraone” (blooper egittologici)

"Il Faraone" (blooper egittologici) - Djed Medu

Questa volta, vi presento un film di nicchia che difficilmente troverete in TV se non proposto da Ghezzi alle 2 di notte per “Fuori orario”. Al massimo, potete guardare la versione completa in polacco, ma con sottotitoli in inglese, su youtube. Detta così, in effetti, non sembrerebbe invitante, ma io ve lo consiglio vivamente perché è uno delle pellicole più interessanti tra quelle recensite finora per la rubrica “Blooper egittologici”. Parola di Guidobaldo Maria Riccardelli (e vediamo se capite il riferimento!). Però, non sarò io ad analizzare “Il Faraone”, ma lascerò la “tastiera” ad Andrea Fiorini da Bologna dopo aver letto e apprezzato molto il suo lavoro inviatomi via mail.

Faraon

“Il Faraone” (“Faraon”) è un film di produzione polacca del 1966 diretto da Jerzy Kawalerowicz, animato da seri propositi filologici che non sempre, nel corso delle oltre due ore di durata, riescono nell’intento.

Il film narra delle vicissitudini che portarono alla conclusione il Nuovo Regno egiziano (1551-1070 a.C.), quando la XX dinastia (1186-1070 a.C.) – nell’interpretazione degli sceneggiatori – termina di fatto con la morte violenta del giovane Ramesse XIII appena salito al trono. Questo re nella realtà non è mai esistito, ma la sua vicenda si pone al servizio della maggiore riuscita drammatica della finzione cinematografica.

I fatti si svolgono in uno dei più controversi momenti della storia egiziana quando la figura stessa del faraone – dio incarnato – viene messa in crisi dal conflitto che la monarchia ebbe con il clero di Amon a Tebe, il più influente del paese. La crisi sfociò nella scissione in due regni (endemica dinamica storica nell’Egitto faraonico), ponendo termine al momento di maggiore gloria dell’Egitto, allorché al nord andò a regnare il re Smendes. Egli regnerà dalla capitale fondata due secoli prima da Ramesse il Grande; il potentato del sud avrà il suo baricentro a Tebe – le insegne del potere in mano al Gran Sacerdote Herihor, già generale dell’esercito, che nel film è uno dei protagonisti. E’ da questo momento che i sacerdoti di Amon divennero i veri detentori del potere su tutta la Valle del Nilo, il così detto Alto Egitto.

Il contrasto tra il clero tebano ed il giovane principe Ramesse sfocia in aperta conflittualità quando le alte gerarchie del Tempio di Karnak scendono a compromessi con alcuni potenti mercanti fenici, doppiogiochisti consiglieri per gli affari esteri del faraone. Essi agiscono da intermediari con gli Assiri – regno mesopotamico in forte ascesa politica e militare – che in realtà si mostrano sprezzanti dinnanzi alle richieste della corona egiziana di fare fronte agli annosi arretrati che devono all’Egitto.

Alla morte dell’anziano re, Ramesse XII (1099-1070 a.C.), il figlio, l’impulsivo ed inesperto Ramesse XIII, per porre fine alle ingerenze di Karnak sulla politica della corona, dando mostra di scarso acume diplomatico, dichiara guerra agli Assiri. Per affrontare le enormi spese necessarie ad organizzare una spedizione bellica in grande stile, come si conviene all’ultimo dei Ramessidi, il neo-faraone dispone parte del depauperamento del tesoro di Stato. L’atteggiamento risoluto di Ramesse, al quale si frappone anche la Regina madre che lo consiglia ad agire con maggiore oculatezza, è teso anche a sfamare il popolo stremato da anni di crisi interna.

Tutto ciò è troppo per l’eminenza grigia di Tebe, e scatena la reazione del sommo sacerdote Herihor che dapprima scioglie i corpi ausiliari dell’esercito, tra cui i contingenti libici (che si danno al saccheggio di Menfi), impedendo poi al re di accedere al Tesoro di Stato, presente negli oscuri meandri sotterranei del tempio di Amon a Karnak. Che si tratti di Karnak si presume, non s’intuisce, dal momento che i fatti si svolgono in maniera sincopata tra una Menfi che mai si intravede ed una Tebe che si potrebbe definire uscita piuttosto dal cinema di Pasolini.

Herihor ponendo fine ad ogni problema (tagliando la testa al Toro possente potremo con ironia sottolineare), servendosi di un perfetto sosia del re, uno spiantato esule greco (?!), addestrato negli anni a muoversi e a parlare come l’originale, decide di eliminare Ramesse XIII. La scena finale che descrive la morte del re è, in assoluto, una delle più coinvolgenti del film.

Faraon-Kawalerowicz

Il porre in risalto la contrapposizione tra la corona ed il clero più potente del paese è una palese metafora del dibattito sulla laicità che perdura da oltre un secolo in Europa. Ciò è più vero se si considera come la Polonia, paese produttore della pellicola, facesse parte, negli anni in cui il film fu realizzato, del Blocco Sovietico. E’ comprensibile, allora, e rivista oggi con comprensivo sguardo contemporaneo, come la qualità generale della sceneggiatura risenta in maniera marcata di un approccio ideologico (forse critico?) in chiave marxista.

Il parallelo tra l’Europa del 19° e 20° secolo e l’Egitto appena uscito dall’Età del Bronzo, è però un’evidente forzatura.

In quale misura la vera ragione che portò la scissione dei poteri nel paese del Nilo all’inizio del Primo Millennio a.C., sia stata, in effetti, lo spropositato potere del sacerdozio di Amon, è una realtà storica che gli studi egittologici hanno ricostruito con una certa nettezza (e tale potere partiva da molto lontano). Piuttosto si deve sottolineare come la monarchia ad elezione divina aveva connotati universali tali che, sul puro piano intellettuale, estendeva il proprio dominio su tutte le terre e su tutte le genti del mondo allora conosciuto. Il film di Kawalerowicz non coglie la connotazione culturale dell’Egitto a cavallo tra Nuovo Regno e Terzo Periodo Intemedio, ed, anzi, lo distorce, annullando in tal modo la vera dimensione documentaria che in potenza, poteva avere questo lodevole esperimento d’arte cinematografica.

Il faraone deteneva ogni potere decisionale sugli uomini che gestivano il culto dei templi, da qui uno dei paradossi del film: gli sceneggiatori hanno evidenziato tale assunto nella scena in cui Ramesse XIII appena investito degli attributi regali sceglie in modo arbitrario, nel novero dei presenti nella Sala del Trono, il sacerdote che lo dovrà sostituire nel culto giornaliero.

Al di là della debolezza di una dinastia che, è bene sottolinearlo, è stata composta vieppiù da sovrani la cui durata di regno fu assai breve, e che quindi aveva esplicite responsabilità sulla crisi della Corona, il clero di Amon a Karnak non era uno Stato nello Stato, come la storiografia della prima metà del 20° secolo ha con perniciosa insistenza sostenuto.

Tale pensiero, si diceva, veniva a riflettere non di meno ciò che che avvenne in Europa per effetto delle teorie marxiste, quando, dallo scontro tra Stato e Chiesa, verrà a dipendere il panorama storico di cui oggi il mondo occidentale è erede. In quest’ottica diviene forzatura anche la presenza nel film della giovane ebrea che darà l’erede a Ramesse.

La laicità non fu propria dell’Egitto dei Faraoni, e un Ramesse XIII, personaggio fittizio, che fa abbattere i portali del tempio è immagine improponibile, ancorché anacronistica.

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C’è un ulteriore aspetto del tutto ignorato da Kawalerowicz; una sfumatura che, nel complesso, avrebbe dato un carattere storico realmente filologico al film: l’omessa presenza di una figura fondamentale per gli equilibri politici nell’Egitto dell’epoca , ovvero la “Divina adoratrice di Amon”. Costei, figlia del faraone, veniva data in sposa, nell’Egitto dell’epoca, al Grande Sacerdote di Amon, quale matrimonio “diplomatico” teso ad unire, anche nella teologia, e nel rituale, le due parti in contrasto: monarchia/clero di Amon. La dinastia delle Divine adoratrici (chiamate anche “Spose di Dio”), diverrà, attraverso i secoli del Terzo periodo intermedio prima, e del Tardo periodo dopo, le reale detentrice del potere a Tebe, a cui verranno attribuiti tutti i crismi del potere che fu dei Faraoni.

Con la presenza di una Divina Adoratrice si può sostenere che il film avrebbe assunto tutt’altro spessore. Piuttosto, l’aspetto del Sacro Femminino, così peculiare nella teologia cosmica e faraonica (basti pensare ad Hathor e ad Iside), nell’opera di Kawalerowicz viene deputato alla presenza di una fantomatica sacerdotessa di Astarte, infida tessitrice di macchinazioni dietro le quinte della Sala del Trono. Ci sembra troppo poco.

Il film ha grandi meriti, primo fra tutti l’avere approcciato un Egitto antico lontano dai triti, assurdi stereotipi di altro tipo di cinematografia – vedi Hollywood e dintorni -, e, seppure con le sue falle, ha tentato di avvicinarsi con degne intenzioni (tentar non nuoce) alla civiltà egizia, descrivendo una realtà tanto lontano quanto diversa dalla nostra.

Vi sono scene che agli occhi dei più smaliziati conoscitori della cultura egizia appaiono inverosimili, come, ad esempio, mostrare i templi di Tebe nello stato di rovina attuale, quando invece all’epoca degli eventi narrati nel film questi avevano pochi secoli di vita, ed erano splendidi nella loro integrità – ma ciò crediamo sia dipeso dai costi di produzione. Questo è l’approccio artistico di cui si parlava all’inizio, che forse prende in prestito il cinema di Pier Paolo Pasolini.

Altre incongruenze si riscontrano qua e là, come nella scena di Palazzo dove si svolge una festicciola tra gli intimi di Ramesse, mentre fuori la città (quale?) è messa a fuoco e fiamme dalla dispersa soldataglia dello smantellato Corpo libico.

Tale scena è emblematica, in prima istanza nel marcare la decadenza della cerchia dei nobili, privilegiata casta che indugia, al sicuro tra mura inviolabili, in decadenti sollazzi mentre il popolo è vittima delle iniquità del sistema. Il secondo aspetto, in apparenza più superfluo, indugia piuttosto nell’antropologia documentaria che pare trarre spunto iconografico dal celebre libro di J.G. Wilkinson, Manners and Customs of the Ancient Egyptians. Ci riferiamo alla descrizione dell’ambiente nel quale la festicciola (o sarebbe più giusto parlare di orgia?) ha luogo: attraverso una tecnica di ripresa tutta giocata sull’effetto-capogiro, la suggestione scenica induce lo spettatore ad entrare a contatto con gli astanti accaldati e sovraeccitati dall’opprimente atmosfera di piacere, dove le ragazze divengono materiche nella loro sensualità di bronzee bellezze egizie. E la musica: il motivo di sottofondo, fatto soltanto di leggere percussioni, porta a ritenere incongrua a se stessa l’arte musicale che gli egizi stessi ci hanno tramandato, e davanti agli occhi appare, giocoforza, come immagine richiamata dalla coscienza mnemonica, il famoso dipinto della tomba di Nakht a Tebe delle Tre suonatrici. Dov’è che ci vuole condurre Kawalerowicz? Qual è, dove è, l’afflato che ha spinto il regista polacco a restituirci l’Egitto antico? E’ romanticismo, il suo? O cosa? Sappiamo quindi, anche grazie a Wilkinson, che gli Egizi invece usavano già strumenti a corda e a fiato, e la musica doveva avere un suo valore orchestrale ben più complesso e variegato.

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Lo scetticismo di matrice egittologica prende il sopravvento quando (cioè molto spesso) vengono mostrati gli interni sia degli edifici civili sia dei templi (si presume, sempre, quello di Karnak), con certe forzature interpretative – qui poco sostenute da genuina vis filologica – che esse siano sale di rappresentanza di palazzo o stanze private. Il tema cromatico dominante è uno spento color ocra grigiastro, quando sappiamo invece che i santuari sfolgoravano nel loro caldo e vivo bianco perlaceo sul quale spiccavano estesi e spettacolari rilievi multicolori. E le pareti delle stanze di Palazzo o solo delle abitazioni signorili erano dipinte con scene di ispirazione naturalistica dai toni vivaci e dai bellissimi colori, arricchite, non ultimo, con mobilio di elevata qualità artigianale.

Ma la dicotomia più appariscente del film sta nell’osservare la costante presenza della sabbia anche laddove invece, a fare da cornice alle abitazioni come ai templi, ai villaggi come alle città, la lussureggiante vegetazione della piana alluvionale del Nilo, con i suoi sconfinati palmizi, colorava di verde e dei colori della natura ogni angolo dell’ambiente vivibile ed ogni momento dell’esistenza di un popolo che con la natura stessa era ancestralmente compenetrato di simbiosi mistica, e che sfumava, tra l’altro, nei giardini delle case, microcosmi di delizia a cui ogni egizio non poteva fare a meno.

Per ultima, ma non ultima, mossa com’è da involontaria ironia, la scena, comunque suggestiva, in cui il vecchio Ramesse XII, a Palazzo, varca una progressiva e, dal punto di vista scenografico, ben studiata serie di porte. Queste si schiudono (pare per magia, e così forse è) una per una, per poi palesarlo nella sua viva regalità, accompagnato da un inno cantato che lo presenta come Osiride. “Osiri Ramsete” canta l’inno, “Osiri Ramseteee“. Se la regalità del faraone è, come detto, viva, perché egli è Osiride? Un-nefer era un epiteto del Dio della rinascita, “Essere compiuto, perfetto, bello”, in quanto rinato nell’Egitto eterno, quello oltremondano dei Campi di giunchi. Il film ha avuto la consulenza di Kazimierz Michalowski, forse l’egittologo polacco più autorevole del tempo; ebbene lo studioso non poteva correggere (almeno) questo passaggio della sceneggiatura? Far presente agli autori che Osiride era il Signore dell’oltretomba, e associare al suo nome qualcuno ancora in vita significava considerarlo piuttosto come un’entità dell’altro mondo? D’accordo che Ramesse XII nel film appare più là che di qua, e che magari la scena sia stata immaginata nell’ottica di un’imminente dipartita del vecchio re, sta di fatto che un antico egizio avrebbe fatto mille scongiuri e si sarebbe appellato con riverenza al proprio dio sentendosi definire “Osiride” ancora vivo, e vegeto (va beh, non nel caso del nostro…).

Ripetiamo, il film è bello ed ottimamente diretto, coinvolge, e i dialoghi sono scritti molto bene, così come è ben recitato dai bravi e credibili attori, senza eccezioni. Per un cultore dell’antico Egitto “Il faraone” è, allo stato attuale, l’unica opera cinematografica del mondo occidentale realizzata con tutta la cura ed il rispetto che si devono a quello straordinario trionfo dell’Uomo che fu l’Egitto dei Faraoni. Del fatto che le intenzioni siano andate in parte deluse l’abbiamo già espresso, è inutile tornarci.

Molto bella la scena d’apertura in cui due scarabei stercorari fanno ruzzolare sul terreno riarso dal sole la loro palletta di sterco al cui interno vi sono le uova che garantiranno la sopravvivenza della specie. La loro presenza sul campo di battaglia per ordine di Herihor, farà deviare il percorso dell’esercito guidato dal principe Ramesse in addestramento onde evitare di recare loro disturbo, in quanto ipostasi divina. Sin dall’inizio del film, allora, lo spettatore è partecipe dell’insanabile insofferenza che separa il giovane nobile dalla classe sacerdotale.

Ecco il riferimento ad Akhenaton, quando e come il re eretico della XVIII dinastia diviene strumentale all’approccio ideologico del film. “Libero Stato in libera Chiesa” era il mantra del laicismo europeo fino alla caduta del Muro; ma che senso ha un faraone miscredente o ateo, alla fine del Nuovo Regno? Comunque Akhenaton non era ateo, anti-casta forse, ateo di certo no. “Il faraone”: un bel film; una buona intenzione, sacrificata sull’altare dell’ideologia, quindi svilita, e mortificata.

Non pensiamoci più, e torniamo alla scena degli scarabei: gli sceneggiatori hanno colto alla perfezione lo spirito di un popolo che nella natura riconosceva il simbolo dell’eternità ciclica ed il mito del suo lineare essere sulla terra. In quella palla rotolata si riconosce il sole che viaggia dall’aurora della nascita al tramonto della sua scomparsa, fin dunque nel viaggio nei perigli delle tenebrose ore notturne in cui rischia di essere inghiottito dalle forze del Caos. Quella palla di sterco, nobile materia, contiene la vita del Mondo che ritorna con il sole all’alba.

E’ la rinascita, della vita, e della speranza.

Andrea Fiorini