“I Dieci Comandamenti” (blooper egittologici)

"I Dieci Comandamenti" (blooper egittologici) - Djed Medu

Dopo una vera e propria impresa biblica, sono riuscito finalmente a terminare di scrivere questo articolo! Infatti, nonostante le quasi 4 ore di film non fossero così invitanti, non potevo esimermi dal parlare di quello che, insieme a “Cleopatra”, è il kolossal più famoso sull’antico Egitto: “I Dieci Comandamenti”.

La storia è nota a tutti ed è stata sfruttata più volte dal mondo del cinema, come nel lungometraggio della DreamWorks “Il Principe d’Egitto” o nel recente “Exodus – Dèi e re” di Ridley Scott. Ma pochi sanno che la celeberrima pellicola del 1956 di Cecil B. DeMille è un remake dell’omonimo film diretto nel 1923 dallo stesso regista che, quindi, riprese il soggetto sfruttando del materiale girato oltre 30 anni prima – anche grazie a un uso sperimentale del Technicolor – e richiamando a recitare Julia Faye (Nefertari nel 1923, moglie di Aronne nel 1956). Una curiosità: nel 2012, un gruppo di archeologi ha scoperto nelle sabbie della California una sfinge colossale che faceva parte proprio della scenografia del primo film (immagine in basso).

Tornando alla ‘nuova’ versione, l’opera di DeMille può essere considerata, senza dubbio alcuno, una pietra miliare nella storia di Hollywood. Risalta ovviamente la spettacolarità della resa visiva garantita dalle tipiche opulenti ambientazioni anni ’50 e dagli effetti speciali che valsero l’unico premio Oscar su 7 nomination. Come dimenticarsi dell’iconica scena dell’apertura del Mar Rosso? Tuttavia, non va sottovalutato nemmeno il dualismo degli antagonisti Charlton Heston – scelto perché somigliante al Mosè di Michelangelo – e Yul Brynner-Ramesse. L’estrema lunghezza, però, appesantisce la visione, nonostante gli evidenti tentativi di snellire la storia, come il taglio della piaga delle rane e il finale che appare sbrigativo. Dal punto di vista ‘egittologico’, invece, si riscontrano i classici errori del caso (nemes reale indossato anche da esponenti delle classi sociali più basse, geroglifici senza significato, pavimenti in marmo, edifici cartonati), ma, in generale, l’insieme è abbastanza credibile perché costumi e oggetti di scena sono stati riciclati dall’ottimo film “Sinuhe l’egiziano” uscito due anni prima. Si riscontra anche qualche abbozzo di ricerca storica, come nella scena del balletto durante il giubileo di Seti che prende spunto dai rilievi della tomba di Mehu a Saqqara (VI dinastia). Meno del 5% delle riprese è effettivamente girato in Egitto, soprattutto Monte Sinai e il deserto della penisola, mentre per il resto ci sono set ricostruiti e pannelli dipinti.

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Un’analisi più accurata della sceneggiatura necessita, per forza di cose, la valutazione dell’attendibilità storica dell’epopea di Mosè e, quindi, del racconto biblico che, comunque, non è l’unica fonte d’ispirazione del film (alcuni spunti sono stati presi da Midrash, Corano e Giuseppe Flavio, altri sono completamente inventati). Uno studio del genere, però, risulta decisamente problematico a causa della sudditanza che la civiltà occidentale, a chiare radici cristiane, ha sempre avuto nei confronti della Bibbia. Nel corso dei secoli, le Sacre Scritture non sono mai state messe in discussione e l’archeologia biblica ha spesso cercato conferme dei dati presenti nei versetti. L’indagine scientifica laica è stata osteggiata per decenni e, in alcuni casi, lo è tuttora; per questo, rispetto alle altre civiltà del Vicino Oriente, quella ebraica è meno nota dal punto di vista archeologico. Perfino Sigmund Freud si è cimentato nell’argomento scrivendo nel suo ultimo saggio, “Der Mann Moses und die monotheistische Religion”, che Mosè era in realtà un principe della corte di Akhenaton che trasmise il monoteismo amarniano agli Ebrei. Bisogna ricordare, però, che la Bibbia comprende una serie di reinterpretazioni funzionali di periodi remoti che precedono di secoli, se non di millenni, la sua redazione (forse iniziata nel VII secolo a.C.). In pratica, il Vecchio Testamento non è altro che una ricostruzione, a fini religiosi, legislativi e propagandistici, della nascita dello Stato d’Israele; un po’ come l’Eneide di Virgilio mitizza la fondazione di Roma. Ma se è sbagliato inseguire la prova di eventi veramente accaduti, si possono comunque individuare possibili influenze storiche.

I Parte

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DeMille colloca l’intera vicenda nel XIII secolo a.C., durante i regni di Ramesse I (1292-1291), Seti I (1290-1279) e Ramesse II (1279-1212, nell’immagine in alto). Il primo compare solo all’inizio quando, spaventato dalla proliferazione degli Ebrei nella terra di Gessen (Delta orientale), dà ordine di uccidere tutti i loro neonati di sesso maschile. In realtà, la Bibbia fa riferimento a due soli sovrani, senza specificarne il nome, e che, quindi, possono essere definiti il “faraone dell’oppressione”e il “faraone dell’esodo”. La scelta di questi re è dovuta dal fatto che si legge (Es 1,1-22) che il popolo schiavizzato di Israele costruisce le città-granaio di Pitom (fondata già sotto Horemheb) e Pi-Ramesse, la nuova capitale di Ramesse II. Non essendoci fonti egiziane che parlano dell’Esodo, è difficile trovare un riscontro; la più antica menzione degli Ebrei, invece, si trova nella “Stele di Merenptah” (1213-1203), in cui il termine ysrỉr è incluso tra i popoli sconfitti. Per questo, alcuni pensano che Merenptah possa essere il “faraone dell’esodo”. Un’altra teoria farebbe coincidere gli Ebrei con gli Shasu, beduini nomadi attestati già sotto Amenofi III (1387-1348). Israel Finkelstein (Tel Aviv University), invece, crede che la storia sia molto più recente e che sia da ricondurre allo scontro tra Necao II (XXVI din.) e Giosia di Giuda (648-609). Più semplicemente, il racconto potrebbe non riferirsi ad alcun momento in particolare: la pressione di popolazioni asiatiche, anche semitiche, sui confini orientali è sempre stato un problema del Basso Egitto, così come sono numerosi i testi che parlano di campagne militari contro le tribù del deserto. Situazione che sfociò nelle dinastie straniere durante il II Periodo Intermedio. Quest’ultima circostanza, fra l’altro, è stata utilizzata pochi giorni fa da Mustafa Waziri, direttore delle Antichità di Luxor, per la sua personale interpretazione dell’Esodo che, quindi, risalirebbe al XV secolo a.C. Secondo la sua teoria, il Faraone non sarebbe stato nemmeno ‘egiziano’ ma Hyksos.

L’argomento schiavitù, invece, merita un approfondimento maggiore che svilupperò nella rubrica “bufale eGGizie”. Basti sapere solo che, durante una visita ufficiale al Museo Egizio del Cairo nel 1977, il Primo ministro israeliano Manachem Begin affermò orgoglioso: «Noi costruimmo le piramidi!». Poi ammise l’errore e chiese scusa.

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Tornando al film, per salvare il figlio appena nato dal massacro voluto da Ramesse, Iochebed lo ripone in una cesta e lo abbandona nel Nilo (luogo che, tra serpenti, coccodrilli, ippopotami e mulinelli, è sicuramente adatto a un neonato…) dove viene ritrovato proprio dalla figlia del faraone, Bithia. La principessa, vedova e sterile, decide di tenere il bambino e di adottarlo chiamandolo Mosè (Es 2,1-10). Le teorie sull’etimologia del nome sono varie, tutte da verificare, dalla classica biblica “salvato dalle acque” ad altre che prendono in considerazione la lingua egizia: da messw “generato/nato da (=bambino)” o da mw “acqua” e swt “giunco”, dove s’incastrò la cesta. Sembra comunque evidente che siamo nel campo delle speculazioni. Più interessante è l’origine del racconto, cioè il “mito dell’esposizione” che è un motivo letterario presente in molte civiltà del passato e che sembra avere come radice la Leggenda di Sargon di Akkad (XXIV-XXIII sec. a.C.): «Sargon, re potente, re di Akkad, sono io […] Mia madre, la somma sacerdotessa, mi ha concepito e nel segreto mi ha partorito. Ella mi ha posto in una cesta di giunchi, con la pece mi ha sigillato le porte. Mi ha lasciato nel fiume dal quale non potevo salire […]». L’abbandono del futuro eroe infante è riscontrabile anche dopo la nascita di Paride e di Romolo e Remo e ha significative somiglianze con il mito di Horus, nascosto dalla madre Iside proprio nelle paludi del Delta.

Gli anni passano e Mosè diventa principe al pari del fratellastro Ramesse con cui da subito ha un rapporto di competizione per il trono e di gelosia per il cuore della bella Nefertari (Anne Baxter): chi avesse sposato la favorita del re, infatti, sarebbe diventato il futuro faraone. Questo significa che Nefertari era figlia di Seti e che, quindi, si sarebbe prospettato un incesto, normalissimo per la civiltà egizia ma scabroso per la bigotta America degli anni ’50 e sottaciuto nel film. In ogni caso, la presenza della bella di turno è una completa invenzione degli sceneggiatori per inserire l’immancabile storia d’amore. Come si vede nella foto in alto, Mosè e Ramesse hanno una particolare ciocca di capelli che ricade sul lato destro della testa; peccato che si tratti della “treccia della gioventù” che i bambini maschi portavano fino al 10° anno di età. I due mi sembrano un po’ troppo grandicelli per quel taglio; inoltre, se vogliamo essere pignoli, solo Yul Brynner lo rispetta a pieno essendo calvo già di suo. Intanto, tra gli Ebrei si sparge la voce della futura venuta di un liberatore che li avrebbe affrancati dalla schiavitù e Ramesse assolda Dathan, una sorta di kapo, con talenti d’oro (ma in Egitto le monete compaiono solo nel VI-V sec. per pagare i mercenari greci) per avere informazioni a riguardo.

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Mosè scopre le sue vere origini e decide di abbandonare la corte per vivere come uno schiavo tra il suo popolo, ma viene arrestato e condotto di fronte a Seti durante il suo giubileo. Nell’antico Egitto, però, il giubileo, o Heb-Sed, era una festa celebrata al 30° anno regno, e poi ogni tre, per rinnovare la forza del faraone; Seti I rimase al trono solo per 10 anni circa. A questo punto, c’è un’incongruenza con il racconto biblico (Es 2,16-22) che vede Mosè fuggire nel deserto del Sinai; invece, nel film, l’ebreo viene condotto al confine orientale e bandito dall’Egitto. Sullo sfondo finto (nell’immagine in alto, si vede il diverso colore della sabbia), si stagliano due piramidi che, al di là del loro aspetto in rovina che ovviamente si riferisce ai giorni d’oggi, sono fuori luogo per un altro motivo. Si tratta, infatti, delle piramidi di V dinastia di Neferirkara Kakai (a destra) e di Sahura (sinistra) che si trovano ad Abusir, centinaia di km a sud del confine orientale e, per giunta, nel deserto occidentale. Nel paese di Madian, ai piedi del Monte Sinai, Mosè vive per anni in una tribù di pastori, si sposa con Sefora e ha due figli (nel film uno), fino a quando viene chiamato da Dio sotto forma di rovo ardente che gli dice di tornare indietro a liberare il suo popolo.

II Parte

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Il profeta si presenta a palazzo dove il nuovo faraone Ramesse sta ricevendo tributi dagli ambasciatori dei popoli stranieri. Tra questi, gli sceneggiatori aggiungono anche un improbabile legato di Priamo re di Troia. Da questo momento, inizia la rappresentazione delle 10 piaghe che, però, si limita solo alla tramutazione dell’acqua in sangue (immagine in alto), alla grandine infuocata, all’oscurità e alla morte dei primogeniti egiziani . Le altre, rane (eliminate durante il final cut), zanzare, mosche/pidocchi, moria del bestiame e ulcere, sono solo nominate. Anche in questo caso, molti hanno provato a trovare una spiegazione più o meno scientifica alle piaghe. Perfino Ramesse nel film cerca di razionalizzare la prima dicendo di aver sentito che un pezzo di montagna si era staccato in Etiopia e aveva tinto di rosso il fiume. Effettivamente, prima che la Grande Diga di Assuan interrompesse il fenomeno, il Nilo diventava più scuro grazie all’apporto delle acque torbide del Nilo Bianco e dell’Atbara che nascono dall’Acrocoro Etiopico. Qui, all’arrivo delle piogge monsoniche, i due affluenti si caricavano di terreno ferroso e portavano in Egitto il fertile limo con la piena.

In generale, alcuni studiosi pensano che tutti questi fenomeni straordinari potrebbero essere stati scatenati da una serie di fenomeni climatici successivi a un grande evento distruttivo. In particolare, Robert K. Ritner (Oriental Institute di Chicago) parla della celeberrima eruzione di Santorini (1628 a.C.) che proiettò pomici fino al Delta dove sono state trovate negli strati archeologici del II Periodo Intermedio (possibile grandine infuocata). La cenere vulcanica avrebbe poi oscurato il cielo per giorni (eclisse) e favorito la proliferazione di alghe rosse rendendo più acido il pH dell’acqua (tramutazione in sangue). Con questa nuova acqua meno salubre, sarebbero morti i pesci, lasciando spazio alle rane, e morti molti capi di bestiame, la cui putrefazione avrebbe attirato insetti, causa a loro volta delle pustole. Le cavallette, invece, con i loro escrementi avrebbero favorito la formazione di microtossine sul grano divenuto letale per chi, come i primogeniti, aveva doppia razione. Tutto un po’ troppo macchinoso… Le piaghe (in realtà è definita ‘piaga’ solo l’ultima; le prime 9 sono ‘segni’ o ‘prodigi’) probabilmente sono solo una descrizione metaforica di un periodo caratterizzato da carestie e sconvolgimenti climatici.

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Finalmente Ramesse si convince a lasciar partire gli Ebrei verso est, ma, spinto dalla voglia di vendetta, prepara l’esercito per l’inseguimento. Tra i soldati, vengono mostrate anche le guardie Shardana, gruppo di Popoli del Mare caratterizzato dall’elmo cornuto e rappresentato anche nei rilievi della battaglia di Qadesh (nel doppiaggio italiano, però, vengono chiamati ‘Sardi’, forse fomentando la fissa di alcuni fantarcheologi isolani che debunkerò prossimamente). Però, come tutti sanno, le truppe egiziane saranno ingoiate dalle acque del Mar Rosso e Ramesse tornerà da solo a palazzo, anche se la Bibbia non specifica la sorte del Faraone. Anche in questo caso, esiste una bufala che rispunta puntualmente ogni anno secondo la quale, a largo della città di Ras Gharib, sarebbero stati ritrovati oltre 400 scheletri e i resti di armi e carri da guerra inglobati nella barriera corallina. L’apertura miracolosa del mare, invece, è spiegata con tsunami o con forti venti da est.

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Ultimo particolare da rilevare è la forma del vitello d’oro, idolo pagano fatto realizzare da Dathan (nella Bibbia da Aronne) fondendo i gioielli delle donne e tutti i tesori portati dall’Egitto (Es 32,4). La statua s’ispira chiaramente al Toro Api, con il disco solare tra le corna, che, però, non era mai rappresentato seduto sulle zampe posteriori.