“La Mummia – Il ritorno” (blooper egittologici)

"La Mummia - Il ritorno" (blooper egittologici) - Djed Medu

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Dopo la “Mummia” del 1999, continuo la recensione dei film di Stephen Sommers con il secondo capitolo della trilogia: “La Mummia – Il ritorno”. Questo sarà anche l’ultimo della serie in questa rubrica visto che, in “La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone”, la narrazione si sposta in Cina. In realtà, sarà il penultimo perché mancherebbe ancora “Il Re Scorpione”, prequel/spin-off nato proprio dal film che sto per analizzare in questo articolo.

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Siamo nel 3067 a.C. e il temibile esercito del Re Scorpione (il wrestler “The Rock”) si presenta minaccioso alle porte di Tebe: già su questo primo frame ci sarebbe da parlare per un’ora… L’Egitto in cui è ambientato il flashback iniziale dovrebbe essere quello a cavallo tra predinastico e protodinastico, intorno al momento dell’unificazione delle Due Terre. Un discorso a parte andrebbe poi fatto sulla vera identificazione di Scorpione, nome che si lega a due faraoni della cosiddetta Dinastia 0, ma di cui scriverò più approfonditamente nell’articolo dedicato al film “Il Re Scorpione”.

Tebe, invece, è il nome che i Greci diedero a Waset, città di cui si sa poco per la sua fase arcaica. Capoluogo del IV nomo dell’Alto Egitto e capitale di Kemet solo a partire dall’XI dinastia, poi localmente durante il Secondo Periodo Intermedio e soprattutto nel Nuovo Regno, Tebe era probabilmente una piccola località provinciale nell’Antico Regno (le prime tracce si limitano a tombe della III-IV dinastia), figuriamoci per per periodi più antichi di cui non abbiamo attestazioni.

I veri centri del potere amministrativo e religioso dell’Egitto pre/protodinastico erano Hierakonpolis (da cui provengono la celebre Paletta di Narmer e le teste di mazza del Re Scorpione II) e Abido (sede, più precisamente a Umm el-Qa’ab, delle necropoli reali delle dinastie 0, I e in parte II), insieme a Naqada e, più tardi, Thinis.

In ogni caso, nemmeno queste città avevano l’aspetto della monumentale metropoli mostrata nel film che si adatta – volendo essere buoni – più all’immaginario del Nuovo Regno. Solo per fare un esempio, il principale tempio di Nekhen (Hierakonpolis) era quello di Horus ed era composto ‘semplicemente’ da un recinto di canne intonacate, un tumulo ovale e una struttura in legno. Uno scenario molto lontano da mura ciclopiche, alte scalinate, piloni, obelischi (non monolitici…) e statue colossali ricostruiti in CGI. Anacronistiche sono anche le armi utilizzate dai soldati: al posto di mazze, lance e pugnali, qui viene mostrato il khopesh, spada-falce introdotta nella guerra solo secoli dopo.

Tornando alla storia, Re Scorpione viene sconfitto ed esiliato nel deserto di Ahm Shere dove resta l’unico in vita. Desideroso di vendetta e di potere, il guerriero – un Faust ante litteram – si vende ad Anubi in cambio della sua invincibile armata cinocefala. Conquistato l’Egitto, però, il dio non si accontenta del tempio e della piramide d’oro eretti in suo onore nell’oasi di Ahm Shere, ma si prende subito l’anima di Scorpione dissolvendo i suoi guerrieri sciacallo.

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Esattamente 5000 anni dopo, tra le rovine di una desertica Tebe (come dimenticarsi dell’esistenza della moderna Luxor), ritroviamo i nostri eroi: l’egittologa Evelyn Carnahan (Rachel Weisz), l’avventuriero Rick O’Connell (Brendan Fraser) e, nuovo personaggio, loro figlio Alex. Nei sotterranei di un tempio, Evelyn si muove come se conoscesse già il posto grazie alle visioni che hanno cominciato a colpirla con l’entrata dell’Anno dello Scorpione. Inutile dirvi che gli Egizi non usavano il calendario cinese.

Riesce poi a trovare il sacro Bracciale di Anubi e l’emblema del Re Scorpione che era convinta fosse solo un mito senza attestazioni archeologiche precedenti, quando, già nel 1897-8, il britannico James Quibell ne aveva scoperto le sopracitate teste di mazza nel deposito di fondazione del tempio di Horus a Hierakonpolis.

Nel frattempo, nella mitica città dei morti di Hamunaptra, una setta capeggiata da Baltus Hafez (Alun Armstrong), curatore del British Museum, scava alla ricerca del corpo maledetto di Imhotep (Arnold Vosloo). Quest’organizzazione segreta, infatti, mira ad impadronirsi dell’Armata di Anubi e il malvagio sacerdote, con i suoi poteri soprannaturali, è l’unico in grado di contrastare il Re Scorpione una volta resuscitato. Per arrivare nell’oasi di Ahm Shere, hanno bisogno anche del Bracciale di Anubi, una sorta di proiettore olografico della mappa (immagine in basso a sinistra), che però ha già indossato Alex attivando la maledizione.

Negli scantinati del British (in realtà, viene mostrata la facciata dell’università londinese UCL: immagine in alto a destra), compaiono tutti i cari oggetti senza senso di cui avevamo fatto la conoscenza nel capitolo precedente: il Libro dei Morti a forma di diario segreto e i CINQUE canopi. La mummia di Imhotep si risveglia e subito ne approfitta per pomiciare con la bella Meela Nais (Patricia Velásquez), assistente di Baltus e  copia esatta dell’amante del sacerdote, Ankh-Su-Namun. Non è la sola reincarnazione della storia perché si viene a scoprire che Evelyn, in una vita passata, era stata Nefertiti, non la sposa di Akhenaton come avrete pensato, ma una figlia di Seti I.

Infatti, durante una delle visioni dell’archeologa, le due donne combattono di fronte al faraone utilizzando, manco fossero Raffaello delle Tartarughe Ninja, l’arma giapponese chiamata “sai” (foto in basso). La presenza di queste rimembranze e dei frequenti dialoghi in egiziano antico, fanno sì che, rispetto a “La Mummia”, qui la consulenza dell’egittologo Stuart Tyson Smith sia stata molto più sfruttata.

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La corsa contro il tempo verso la piramide dorata di Ahm Shere fa tappa in ognuno dei siti più iconici d’Egitto, tutti ovviamente stravolti dalla computer grafica: le Piramidi di Giza nel lato sbagliato del Nilo; un irriconoscibile complesso di Karnak (nell’immagine con il treno) posto, come già detto, in mezzo al deserto; l’isola di File che dovrebbe essere parzialmente sommersa dalle acque a causa della prima diga di Assuan (innalzata due volte nel 1907-1912 e nel 1929-1933); il Tempio maggiore di Abu Simbel ancora coperto di sabbia quando, negli anni ’30, era stato già completamente scavato.

Un piccolo easter egg che ho apprezzato nel corso del viaggio è il travestimento che indossa Imhotep prima di riacquistare le sue sembianze umane, un pesante mantello nero e la stessa maschera metallica di Belfagor – Il fantasma del Louvre.

Buoni e cattivi, infine, arrivano nell’oasi che si trova in Sudan. Il tempo scade e l’Armata di Anubi si risveglia, fronteggiata senza speranze dai guerrieri Medjai di Ardeth Bey (vi ricordo che questo nome, nel film originale del 1932, era lo pseudonimo di Imhotep stesso); qui si verifica un altro colpo di scena – o buco nella trama – perché O’Connell capisce di essere a sua volta un medjai riconoscendo, in alcuni rilievi della piramide, il tatuaggio che ha sull’avambraccio e che non compare nel primo film.

Rick è quindi il prescelto a uccidere il Re Scorpione, un ibrido mostruoso metà uomo metà aracnide, con l’ausilio dello Scettro di Osiride. Lo scontato happy ending vede tutti i villain fare una brutta fine, compreso Imhotep risucchiato nell’aldilà, questa volta per sempre (salvo un improbabile ennesimo sequel di cui farei volentieri a meno).

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