Con il sesto e ultimo episodio, mercoledì scorso si è conclusa su Disney+ la nuova miniserie Marvel “MOON KNIGHT” che, così come il fumetto da cui trae ispirazione, attinge ampiamente a storia, archeologia e religione dell’antico Egitto. In questo articolo proverò a spiegare tutti i riferimenti egittologici, ma se ne avete individuati altri, segnalatemeli nei commenti! Di conseguenza ci saranno spoiler, quindi consiglio caldamente a chi non ha visto l’intera serie di tornare più tardi o al massimo leggere il pezzo relativo ad ogni puntata.
Devo ammettere che, fino al lancio dei primi trailer, non conoscevo l’esistenza di un supereroe che deve i suoi poteri a una divinità egizia, così mi sono documentato leggendo qualche albo che lo riguarda, in particolare la raccolta “Lunatico”, con i numeri del 2016 di Greg Smallwood e Jeff Lemire. In realtà, la prima apparizione di Moon Knight risale addirittura al 1975 come antagonista in “Werewolf by Night”, ma, grazie all’apprezzamento dei lettori, intensificò la sua presenza in fumetti di personaggi più famosi, fino ad ottenere una serie personale dal 1981. Molto brevemente, il Cavaliere della Luna è l’alterego (uno dei tanti, come vedremo) di Marc Spector, mercenario americano che, in fin di vita, viene salvato dal dio Khonshu al quale consacra la sua esistenza come protettore dei viaggiatori della notte. Ma caratteristica principale del personaggio è la coesistenza di diverse identità che, nel corso degli anni, sfocerà in una psiche frammentata e in un disturbo della personalità multipla. Fino alla fine, infatti, non sarà chiarò se quello che stiamo vedendo sia l’effettiva realtà o una proiezione della mente malata del protagonista.
Già dall’evento scatenante, gli intrecci con la civiltà nilotica sono continui e cose di cui parlare quindi ce ne sono molte. La serie – affidata fra l’altro a un regista egiziano, Mohamed Diab – si è avvalsa della consulenza di un egittologo, Zoltán Horváth del Museo di belle arti di Budapest, ma non per questo è scevra da errori. Alcune sviste dipendono dall’aderenza al fumetto, altre per evidenti scelte di marketing, altre ancora dal fatto che nessuna scena, come spesso accade, è stata girata in Egitto. Ma è apprezzabile l’utilizzo dell’antica lingua egizia per alcune delle invocazioni del villain Arthur Harrow (Ethan Hawke). C’è infine da sottolineare che Oscar Isaac, l’ottimo attore che impersonifica Moon Knight, ha già curiosamente ricoperto un ruolo “egizio” per la Marvel nel film “X-Men – Apocalisse“.
1° Episodio – Il dilemma del pesce rosso
Steven Grant è un commesso del bookshop di un museo archeologico di Londra. Seppur non venga direttamente citato, è chiaro ci si riferisca al British Museum che conserva una delle collezioni egizie più importanti in assoluto. Tuttavia, la serie è stata girata nel Museo Nazionale Ungherese a Budapest, la cui facciata neoclassica si avvicina molto a quella del British.
Gli stessi reperti mostrati in puntata sono tutti oggetti di scena creati ad hoc su modello di famosi pezzi provenienti da musei di tutto il mondo. Ci sono sicuramente antichità del British, come il Gatto Gayer-Anderson, alcune statue di Sekhmet e soprattutto il cosidetto “Giovane Memnone” (foto in alto a destra), ma si riconoscono altre opere iconiche: dal Museo Egizio del Cairo, le maschere funerarie d’oro dalla necropoli reale di Tanis, la statua-rebus di Ramesse II e le versioni in miniatura di Ramesse III tra Horus e Seth e di Chefren seduto in trono; dal Luxor Museum la statua di Nebra e di Ramesse VI con nemico; dal sito di Menfi, la statua colossale di Ramesse II (ma in piedi); dal Kherma Museum in Sudan, il gruppo di statue di faraoni della XXV din. e re kushiti della cachette di Dukki (frame in alto a sinistra); ecc. Altri invece sono frutto di fantasia, come i 4 pilastri al centro della sala principale del museo che mostrano scene prese dal papiro di Hunefer.
Nonostante il suo lavoro si limiti a vendere souvenir, Steven si mostra un esperto di religione egizia e si stupisce che nella cartellonistica del museo si pubblicizzi una mostra sull’Enneade con 7 dèi al posto di 9… ma poi cita erroneamente Horus (per la composizione dell’Enneade, rimando al 3° episodio). In effetti, il nostro protagonista passa notti intere a studiare libri di egittologia, soprattutto per combattere i suoi disturbi del sonno che, come presto si vedrà, hanno una causa ben più complessa. A un certo punto, infatti, Steven si risveglia all’improvviso in un borgo alpino, braccato dagli adepti di una setta armata. A capo di questi invasati c’è Arthur Harrow che, grazie ai poteri conferitigli da Ammit (che invoca gridando in antico egiziano: “dwA ammwt” = “lode ad Ammit”), giudica le persone anche per i loro peccati futuri. Non a caso, sull’avambraccio destro, Harrow ha il tatuaggio di una bilancia che si anima durante il giudizio e che fa riferimento alla Pesatura dell’anima o Psicostasia del capitolo 125 del Libro dei Morti. In questo gruppo eterogeneo di formule magico-religiose che servivano a superare ostacoli e pericoli nell’aldilà, il defunto, di solito accompagnato da Anubi, subiva la prova finale: il cuore, sede del pensiero, delle emozioni e della memoria, era posto sul piatto di una bilancia e pesato in contrapposizione alla piuma di Maat, simbolo di verità e giustizia, con cui doveva trovarsi in equilibrio. In caso contrario, l’organo sarebbe stato gettato in pasto ad Ammit, la “Grande divoratrice”, mostro ibrido dalla testa di coccodrillo, zampe anteriori di leone e posteriori di ippopotamo. Per questo motivo, il bastone di Harrow è decorato con due teste di coccodrillo. Nella serie Ammit ha un ruolo meno passivo ed è tratteggiata come una pericolosa divinità in cerca di una discutibile giustizia preventiva che, per questo, era stata intrappolata dagli altri dèi.
Tuttavia, Harrow e i suoi accoliti vogliono riportare Ammit sulla terra ed hanno quindi bisogno di trovare la sua tomba, la cui ubicazione è indicata da uno scarabeo alato d’oro. Gli Egizi identificavano lo scarabeo stercorario con Khepri, il sole mattutino nascente, per il particolare comportamento dell’insetto che trasporta con le zampe palle di escrementi; di conseguenza, lo rappresentavano nell’atto di innalzare il disco solare. In ambito funerario, lo scarabeo era simbolo di rinascita e il suo amuleto veniva posto come protezione beneaugurante sul petto delle mummie. Il nome di Khepri appare proprio tra i geroglifici incisi sullo scarabeo dorato che corrispondono a una breve porzione del capitolo 17 del Libro dei Morti, scritta in modo speculare sulle due elitre del coleottero:
“i xpri Hry-ib wiA=f pAwty Dt=f nHm=k Wsir Imn-Htp mAa-xrw” = “Oh Khepri, nel mezzo della sua barca, il cui corpo è primigenio, salva l’Osiride Amenofi, giusto di voce”.
Questa chicca si deve sicuramente alla consulenza dell’egittologo, ma personalmente – visto che lo scarabeo punta come una bussola alla tomba di Ammit – avrei sostituito con il suo nome quello di Amenofi (o Amenhotep) che qui ha poco senso.
Successivamente scoppia una colluttazione per accaparrarsi lo scarabeo d’oro e Steven sembra non riuscire a controllare a pieno il suo corpo perché mosso dalla voce di un’entità misteriosa e da una seconda personalità, il mercenario Marc Spector, con cui si alterna nei momenti di black out mentale. Si deve arrivare alla fine dell’episodio per far sì che Steven diventi pienamente consapevole del suo ego dissociato. Di nuovo a Londra dopo un salto temporale e spaziale, infatti, è costretto ad affidarsi al più risoluto Marc quando viene di nuovo raggiunto da Harrow che, nel museo ormai chiuso, prima prova a giudicarlo con il suo bastone e poi gli scaglia contro un mostro umanoide dalle fattezze di cane. La creatura si rifà ovviamente ad Anubi, dio della mummificazione e protettore delle necropoli, raffigurato, per l’appunto, con la testa di sciacallo. Nella scena conclusiva, in un bagno che magicamente viene ricoperto di testi geroglifici luminosi, si vede la prima trasformazione in Moon Knight, tra gli dèi Thot e Horus (immagine in alto).
2° Episodio – Evoca il costume
Il costume di Moon Knight, oltre a mantello e cappuccio bianco, è composto da bende di lino che ricoprono il corpo di Marc durante la trasformazione. Inoltre, sul petto c’è un crescente lunare che è il simbolo della divinità egizia di cui l’eroe è l’avatar sulla terra: Khonshu. Khonsu (più propriamente senza la “h” finale, ma comunque da pronunciare “su” e non “sciu” come si sente in giro) era effettivamente il dio della luna, ma era di solito rappresentato come un bambino mummificato (foto in alto al centro). Faceva infatti parte della triade divina della città di Tebe, l’attuale Luxor, come figlio di Amon e Mut, e insieme venivano venerati nel grande complesso templare di Karnak. Alcune volte era ritratto con la testa di falco (immagine in alto a destra), come Horus ma con disco e crescente lunare sul capo; sicuramente non come l’uccello scheletrico dal lungo becco che si vede nella serie e nel fumetto, più adatto all’ibis di Thot (iconografia che, detto sotto voce, a me piace tantissimo!). Lo stesso ruolo vendicativo e violento del dio si distacca da quello che ha nel pantheon egizio nelle sue attestazioni più tarde. Invece, negli antichi Testi delle Piramidi (XXIV sec. a.C. circa), più precisamente nel cosiddetto “Inno cannibale”, si legge un breve accenno a Khonsu come colui che uccide e fa a pezzi gli altri dèi affinché il faraone defunto potesse cibarsi delle loro membra e acquisirne la forza (Pyr. 402).
Intanto fa la sua apparizione anche Layla El-Faouly (May Calamawy), moglie di Marc e figlia di un archeologo egiziano morto a causa di soldati predoni di tombe. Layla e Steven/Marc capiscono di dover trovare la sepoltura di Ammit prima di Harrow e quindi si recano in Egitto.
3° Episodio – Un tipo amichevole
Marc e Khonshu cercano di fermare Harrow chiedendo agli altri dèi un’udienza che viene convocata nella Piramide di Cheope a Giza. All’interno della struttura, una gigantesca stanza arriva quasi fino al pyramidion ed è decorata da improbabili statue più adatte al set del film “Cabiria” del 1914 (in alto a sinistra). In realtà, la Grande Piramide, salvo pochi ambienti e corridoi, è quasi completamente piena, ma si può giustificare la scelta con un’ipotetica dimensione divina alternativa. Un portale conduce in sala gli avatar degli dèi dell’Enneade, tra cui vengono citati Horus, Iside, Tefnut, Osiride e Hathor. L’Ennade eliopolitana era un gruppo di nove divinità celebrato soprattutto nella città di Eliopoli, importante centro del culto solare che coincide con l’odierno quartiere di Matariyya al Cairo e dove forse sarebbe stato meglio ambientare l’udienza. Inoltre, la composizione originaria della Grande Enneade prevedeva Atum (dio creatore primigenio), Shu e Tefnut (la prima coppia divina), Geb e Nut (terra e cielo), Osiride (sovrano dell’Aldilà), Iside (dea della fertilità e della magia), Seth (dio del caos e del deserto) e Nefti (protettrice dei morti).
L’avatar di Hathor, dea dell’amore, è stato chiaramente inserita per farla velatamente flirtare con Marc a cui, nonostante il consiglio degli dèi giudichi Harrow non colpevole, dice che nemmeno loro sanno dove sia sepolta Ammit, ma gli consiglia comunque di cercare il sarcofago nero di Senfu, medjay incaricato di documentare la posizione della tomba. I Medjay in origine erano una popolazione nubiana del deserto orientale, ma poi il termine venne adottato per indicare corpi speciali dell’esercito e della polizia. Questa attribuzione è stata spesso sfruttata nel cinema e nei videogiochi per creare personaggi con il ruolo di guardiano/guerriero. Possiamo ricordare, ad esempio, Ardeth Bay e i suoi compagni nel film “La Mummia” del 1999 o Bayek del gioco “Assassin’s Creed: Origins”.
Il sarcofago in granito nero, insieme a un secondo sarcofago antropoide in legno e alla mummia, sono esposti in una piramide di cristallo, simil-Louvre, nel giardino del collezionista Anton Mogart. Layla, che conosce Mogart per la sua attività nel mercato nero di antichità, cerca di distrarlo mentre Steven studia il corpo di Senfu. La donna tira in ballo, citandola proprio in tedesco, la parola “Stundenwachen”, come se i testi iscritti nella parte interna del coperchio del sarcofago si riferissero a questo concetto egittologico estremamente tecnico, ma non adatto al contesto. Gli Stundenwachen (Veglia oraria) sono infatti formule da recitare e riti da officiare durante la veglia di un giorno, diviso in 24 ore, sul corpo di Osiride, ma sono noti da testi riportati sulle pareti di templi di epoca greco-romana.
Comunque Steven recupera un pezzo della copertura in cartonnage della mummia che risulta una mappa astrale con le coordinate per trovare la tomba di Ammit. Il cartonnage era una tecnica utilizzata per realizzare maschere funerarie, sarcofagi o altri oggetti del corredo con strati sovrapposti di lino o papiro stuccati e dipinti, un po’ come la cartapesta. Quello che Steven maneggia, invece, sembra più un origami in cuoio a forma di stella a cinque punte.
4° Episodio – La tomba
Le coordinate ricavate dal cartonnage di Senfu si riferiscono alla situazione astrale di circa 2000 anni fa, così Khonshu è costretto a muovere la volta celeste per permettere a Steven e Layla di calcolare la posizione della sepoltura di Ammit. Il gesto, fin troppo appariscente perché la popolazione vede le stelle muoversi vorticosamente nel cielo notturno, scatena l’ira degli dèi dell’Enneade che intrappolano Khonshu in un ushabti e lo mettono insieme alle altre statuine delle divinità decadute (immagine in alto a sinistra). Qui il riferimento egittologico è un po’ stiracchiato perché gli ushabti, tra gli oggetti più tipici della tradizione funeraria egizia, erano figurine poste, a partire dal 1900 a.C. circa, nelle tombe per garantire una funzione specifica. Realizzate di solito con misure che andavano dai 2 ai 20 cm e in diversi materiali (legno, pietra, faience, fango, terracotta, metallo), queste statuine in un primo momento replicavano l’aspetto del defunto, ma con il tempo il loro numero aumentò e divennero veri e propri servitori che lavoravano al posto del morto nell’aldilà. Data l’importanza del Nilo nella vita quotidiana dell’antico Egitto, l’esistenza dopo la morte era infatti immaginata come un fertile paesaggio agricolo in cui tutti avevano i propri obblighi. Gli ushabti quindi si attivavano magicamente grazie a una formula che poteva essere iscritta sul loro corpo (il capitolo 6 del Libro dei Morti) e compivano tutti quei lavori che sarebbero toccati al defunto per l’eternità: arare la terra, scavare canali per l’irrigazione, spostare la sabbia da una riva all’altra del fiume, ecc. Non a caso, una delle ipotesi sull’etimologia del nome li identifica come “coloro che rispondono (alla chiamata)”. Dal I millennio a.C., il loro numero si stabilizza – teoricamente – sulle 401 unità, corrispondenti a un operaio per giorno dell’anno più un caposquadra ogni 10 lavoratori. Nella loro forma standardizzata, gli ushabti erano rappresentati con un corpo mummiforme nell’atto di sorreggere attrezzi agricoli, come zappa, piccone e cesta per i semi. E in questo almeno, le statuette mostrate in Moon Knight si avvicinano all’iconografia classica, soprattutto grazie alle braccia incrociate sul petto. Ma quindi agli dèi non occorrevano ushabti? Ehm, no… a parte, in un certo senso, rarissime eccezioni, come nel caso delle statuine a testa di toro poste nel Serapeo di Saqqara vicino i grandi sarcofagi in cui erano deposti gli animali considerati reincarnazioni viventi del dio Apis (qui un esempio dal Louvre).
Steven e Layla riescono a trovare la tomba che si trova in pieno deserto (in realtà lo Wadi Rum in Giordania) e si accorgono che la struttura sotterranea labirintica è a forma di udjat, l’occhio di Horus. Sembra infatti che, oltre alla sepoltura, ci siano veri e propri laboratori di mummificazione in cui sacedoti-heka, tumulati vivi per proteggere il faraone, eviscerano chi cerca di profanare il luogo. Questo è un classico cliché della letteratura e del cinema che, tuttavia, non ha fondamento. Ad eccezione di precoci casi risalenti ai primi regni del Protodinastico (intorno al 3000 a.C.), infatti, non sono attestati sacrifici umani in Egitto né tanto meno deposizioni coatte di servitori o membri della corte. Inoltre, sebbene il concetto di Heka, riassumibile banalmente nella magia, sia applicabile al contesto mostrato, i sacerdoti rappresentati alle pareti hanno pelli di leopardo addosso quindi sono preti-sem, che avevano un importante ruolo durante i riti funerari.
La camera sepolcrale presenta un collage di elementi appartenenti a epoche diverse. La struttura generale si rifà a tombe reali del Nuovo Regno, in particolare alla KV9 nella Valle dei Re, realizzata per Ramesse V e utilizzata da Ramesse VI (1144-1136 a.C.), di cui sono riconoscibili diverse copie delle pitture parietali (due esempi in alto). Il sarcofago, almeno per la parte dei piedi, trae spunto da quello esterno di Tutankhamon; altri oggetti del corredo, invece, vanno dal Medio Regno al Periodo Tardo (vedi immagine in basso) e si vede addirittura una statua equestre in bronzo a grandezza naturale di foggia chiaramente greco-romana. Bucefalo?
Effettivamente, la tomba appartiene ad Alessandro Magno (356-323 a.C.), come si legge dal nome, scritto non proprio in maniera esatta, in cartigli sul sarcofago e sulle pareti. Il condottiero macedone è sì stato sepolto nell’Egitto che aveva precedentemente conquistato, ma le fonti lo collocano prima a Menfi e poi ad Alessandria, in un mausoleo non ancora individuato e che con tutta probabilità non assomigliava in alcun modo alla tomba mostrata nella serie. L’ushabti di Ammit comunque si trova nella bocca della mummia di Alessandro. Steven riesce a recuperarlo, ma è anche raggiunto da Harrow che lo uccide – almeno apparentente – con un colpo di pistola in pieno petto.
5° Episodio – Asylum
Fine della storia? Naaa… ci sono ancora due episodi. Dopo il colpo di pistola, infatti, Marc si risveglia nell’ufficio del direttore di un istituto psichiatrico, il Dr. Harrow. Sembrerebbe quindi che tutto ciò che è accaduto fosse solo una proiezione della sua mente. Ma fuggendo dalla sala, incontra un sarcofago egizio al cui interno è chiuso Steven. In cerca di un’uscita, i due, per la prima volta fisicamente divisi, finiscono al cospetto dell’imponente figura della dea ippopotamo Taweret che, con una vocina dolce e amichevole, spiega loro che effettivamente sono morti e che ciò che vedono è la Duat, l’oltretomba dell’antico Egitto manifestatosi in una forma comprensibile dalle loro capacità cognitive. Taweret, chiamata anche Tauret, Tueret o Tueris, era una divinità molto popolare nei culti domestici perché protettrice dei bambini e delle partorienti e perché legata al concetto di fertilità. In ambito funerario, invece, aveva un ruolo secondario di garante della rinascita dopo la morte e di guida nel viaggio nell’aldilà. In tal senso, Anubi sarebbe stato più adatto alla guida della barca solare, ma il personaggio pacioccoso della serie servirà sicuramente a vendere action figures e peluche.
Marc e Steven cominciano ad attraversare la Duat, giustamente raffigurata come un deserto notturno. L’imbarcazione in cui viaggiano prende spunto dalla prima barca solare di Cheope (foto in alto a destra), fino a poco tempo fa esposta ai piedi della Grande Piramide, ma ora conservata presso il Grand Egyptian Museum di Giza. Durante il percorso, Taweret ruba ad Anubi anche il compito di prendere i cuori, che effettivamente hanno la forma dell’amuleto-ib, e di pesarli con la piuma di Maat. I bracci della bilancia non sono in equilibrio, quindi i due devono tornare dentro la struttura per risolvere traumi del passato prima che gli spiriti della Duat arrivino a prenderli.
Ripercorrendo i ricordi, si viene a sapere che Steven altri non è che un’identità dissociata creata da Marc quando, da bambino, subì la morte del fratellino e le conseguenti violenze della madre che gli diede la colpa della disgrazia. Per questo l’equilibrio si ottiene solo quando Steven cade dalla barca e diventa una statua di sabbia. Questo avviene proprio in prossimità del Portale di Osiride, il passaggio che collega la Duat con la sfera terrena (in alto al centro). L’iconografia scelta si rifà giustamente alla stele falsa-porta (immagine in alto) che, nelle tombe dell’Antico Regno, era un elemento architettonico che simbolicamente permetteva all’anima del defunto, il ka, di ricevere le offerte e di muoversi tra l’aldilà e il mondo dei vivi. Accanto al cancello si vedono quattro enormi statue che hanno la forma delle statuette di bronzo di Osiride (in alto a sinistra), raffigurato mummiforme, con barba posticcia, scettro heqa e il flagello nekhekh in mano e corona atef sulla testa (corona bianca più piume di struzzo laterali).
6° Episodio – Dèi e Mostri
Con il sacrificio di Steven, Marc può finalmente arrivare nei Campi di Iaru, un infinito campo di grano permeato di tranquillità e di una calda luce soffusa. I Campi di Iaru, letteralmente “Campi di Giunchi/Canne”, sono descritti nei capitoli 109, 110 e 149 del Libro dei Morti e possono considerarsi – tra mille virgolette – come il paradiso dell’antico Egitto. Questo luogo dell’aldilà era rappresentato come un fertile paesaggio coltivato, solcato da freschi canali d’acqua, in cui il defunto, nonostante dovesse compiere diversi lavori agricoli (ma tanto li passava agli ushabti), viveva un’eternità felice e pacifica (immagine in alto a destra). Il concetto di base mette in contrapposizione la verde Valle del Nilo con l’arido deserto. Nei più antichi Testi delle Piramidi, invece, la volta celeste era divisa in due parti, settentrionale e meridionale, rispettivamente occupate dai Campi delle Offerte e, per l’appunto, dai Campi di Iaru che erano solo una tappa momentanea di purificazione durante l’ascesa al cielo. Solo dai Testi dei Sarcofagi, diventarono la destinazione finale, probabilmente posta a est, in corrispondenza con la fine del viaggio notturno del Sole.
Nonostante la beatitudine raggiunta, Marc decide di tornare indietro e di recuperare Steven, anche perché, nel frattempo, Harrow ha rotto l’ushabti di Ammit ed è riuscito a invocarla. L’iconografia della creatura si allontana da quella originale prettamente animale e presenta, come già nei fumetti, un corpo umano con testa e coda di coccodrillo, chioma leonina legata in ciocche e abito e voce femminili. D’altronde, il genere scelto dagli Egizi per la “Grande divoratrice” è chiaro fin dalla desinenza femminile finale -t nel nome. Fedele alla sua definizione, quindi, una gigantesca Ammit a Giza comincia a ingurgitare le anime dei cittadini del Cairo che sono giudicati da Harrow e dai suoi compagni (immagine in alto).
La situazione è grave. Per fermare Ammit c’è bisogno di più forze, così Layla riesce a liberare Khonshu rompendone l’ushabti, fa tornare in vita Marc e a sua volta diventa avatar di Taweret indossando un costume con ali metalliche. Questa forma è una reinterpretazione degli sceneggiatori che hanno preso un personaggio maschile della Marvel già esistente, Scarlet Scarab, e lo hanno trasformato in un’eroina con poteri diversi. Nell’iconografia religiosa egizia, molte dee vengono rappresentate con ali di rapace e le braccia aperte in un gesto di protezione, spesso in ambito funerario: Maat, Nut, Hathor, Iside, Nefti, Selkis, Neith. Troviamo le ultime quattro, ad esempio, agli angoli del sarcofago esterno in quarzite di Tutankhamon (foto in alto a destra).
Da qui in poi si assiste solo a tante botte, con lo scontro tra Ammit e Khonshu e tra Moon Knight, Scarlet Scarab e Harrow, senza che ci siano altri riferimenti egittologici. Ovviamente vinceranno i buoni, anche se l’immancabile scena post-credit apre a possibili risvolti futuri.
Riferimento bonus:
Il primo vero rimando dell’intera serie all’antico Egitto è la decorazione dell’acquario di Steven con souvenir kitsch nell’acqua che ritraggono la Grande Sfinge, una piramide, il busto di Nefertiti, una barca funeraria, un obelisco e un tempietto.