Chi ieri sera ha assistito all’Aida, direttamente all’Arena di Verona o guardandola su Rai 1, sarà rimasto probabilmente colpito dalla scenografia futuristica, molto lontana dalla consueta idea che abbiamo dell’opera di Verdi. Non intendo qui giudicare questa scelta, ma spiegarne una delle motivazioni a monte. Molti infatti hanno storto il naso di fronte agli strani costumi, ai laser e alle strutture metalliche, soprattutto se si pensa che lo spettacolo inaugurava la centesima edizione del Festival Lirico dell’Arena di Verona. In realtà, però, dietro c’è un’insospettabile ispirazione egittologica che è stata palesata da Alberto Angela nel corso dell’introduzione televisiva.
La grande mano robotica che ha troneggiato sul palco per tutta la durata dell’opera e gli arti argentei infilati su bastoni a mo’ di trofeo nel corso dei primi due atti fanno riferimento a una macabra scoperta archeologica in Egitto. Il regista Stefano Poda, che ha curato anche scene, costumi, luci e coreografie, si è infatti ispirato al ritrovamento ad Avaris, antica capitale Hyksos (1640-1530 a.C.) nel Delta nord-orientale del Nilo, di alcune mani di nemici, mozzate e sepolte ritualmente nel cortile di un palazzo reale. La scoperta era stata effettuata nel 2011 da parte della missione austriaca a Tell el-Dab’a, diretta da Manfred Bietak e Irene Forstner-Müller, ma la notizia è recentemente ritornata alla ribalta grazie allo studio sui resti ossei pubblicato su Nature.
Ricordo che l’Aida fu commissionata a Giuseppe Verdi dal khedivè d’Egitto, Ismail Pascià, per celebrare l’apertura del Canale di Suez (1869). Il soggetto originale fu addirittura dell’egittologo francese Auguste Mariette, che curò anche abiti e scenografie della prima al Cairo del 21 dicembre 1871. L’opera arrivò in Italia, presso il Teatro alla Scala di Milano, l’8 febbraio 1872 ed è allestita all’Arena dal 10 agosto 1913, in occasione del centenario della nascita di Verdi.