Negli ultimi giorni, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo sta rimbalzando un’interessante indiscrezione nata da una breve intervista del quotidiano britannico Daily Express al ministro egiziano delle Antichità Khaled el-Enany. Al netto dei titoli clickbait e di frettolose speculazioni senza fonte, la notizia, se confermata, sarebbe importantissima.
Il ministro, infatti, ha parlato della scoperta a Saqqara di una mummia di un grosso felino o, citando le sue stesse parole, dei resti imbalsamati di «un animale molto strano, come un grosso gatto, forse un leone o una leonessa», aggiungendo che si riserva di dare l’annuncio ufficiale solo tra tre settimane, dopo aver effettuato la TAC e l’analisi del DNA. Il ritrovamento della mummia di un leone sarebbe quasi un unicum avendo un solo precedente, individuato nel 2001, sempre a Saqqara nella tomba di Maia, nutrice di Tutankhamun.
Non a caso, Saqqara è una vasta necropoli situata 30 km a sud del Cairo che, oltre ad essere nota per la Piramide a gradoni di Djoser, ospita diverse tombe e catacombe in cui, nel corso dei secoli, sono stati deposti milioni di animali mummificati. La pratica di offrire alle divinità questo tipo di ex voto si sviluppò dall’Epoca Tarda fino al periodo romano (664 a.C. – 250 d.C.), con un particolare picco nell’epoca tolemaica.
I fedeli chiedevano a Bastet, Anubi, Thot, Sobek ecc. – un po’ come oggi i cristiani chiedono la grazia alla Madonna o ai santi – la guarigione da malattie, una vita lunga e felice, la nascita di figli o la soluzione di ogni problema della vita quotidiana, da intoppi negli affari a beghe amorose. In cambio i pellegrini lasciavano al dio invocato la mummia del rispettivo animale, come cani, gatti, scimmie, coccodrilli, serpenti, pesci, uccelli, roditori o perfino scarabei.
L’ingente numero di esemplari, insieme allo studio di alcune fonti scritte, ha fatto pensare all’esistenza di un vero e proprio sistema produttivo di mummie animali su vasta scala, con allevamenti situati nei pressi o dentro i recinti sacri dei templi. Gli animali venivano così allevati, uccisi, imbalsamati e venduti alle persone che visitavano i santuari.
Spesso, infatti, gli scheletri denotano evidenti segni di una morte violenta come il collo spezzato. Questa usanza così cruenta si discosta decisamente dal pensiero comune che la gente oggi ha sulla venerazione che gli antichi Egizi avrebbero avuto nei confronti degli animali, ma appare l’unica soluzione utile a soddisfare una domanda così grande.
Tuttavia, una recentissima pubblicazione, uscita l’altro ieri su Plos One, sembrerebbe mettere in dubbio la pratica dell’allevamento intensivo, almeno nel caso dell’ibis sacro (Threskiornis aethiopicus), l’uccello simbolo del dio della sapienza, della scrittura, della magia e delle scienze: Thot.
Un team di ricercatori diretto da Sally Wasef (Australian Research Centre for Human Evolution alla Griffith University) ha effettuato il primo studio completo del genoma mitocondriale di 40 esemplari mummificati di ibis sacro provenienti da diversi siti egiziani. In particolare, oltre ad alcuni pezzi conservati in musei, sono state prese in considerazione le tre principali necropoli consacrate a Thot: Saqqara, Tuna el-Gebel e Sohag (nei pressi di Abido). Solo per i primi due siti si stima che ci siano rispettivamente 1,5 e oltre 4 milioni di mummie di ibis, quindi ci si chiede da dove gli antichi Egizi prendessero tutti questi uccelli.
L’ipotesi corrente degli egittologi, come detto, è che esistessero fattorie, chiamate da Erodoto ibiotropheia, in cui alcuni ibis, attratti con del cibo, sarebbero stati fatti riprodurre e allevati in cattività. Già nel 1825, il naturalista francese Georges Cuvier, sbendando una mummia da Tebe, aveva osservato una frattura guarita dell’ala che non avrebbe mai permesso la sopravvivenza dell’animale in natura.
Tuttavia, lo studio della Wasef e colleghi propenderebbe invece per l’approvvigionamento tramite caccia. Il corredo genetico degli esemplari antichi, ricostruito in maniera completa solo per 14 casi, è stato paragonato con quello di 26 campioni moderni provenienti da diversi paesi dell’Africa. È curioso che tra questi manchi proprio l’Egitto in cui l’ibis sacro, che si è stabilito perfino in Italia, si è istinto intorno alla metà del XIX secolo.
Nelle mummie non è stata riscontrata quella omogeneità genetica che ci si aspetterebbe da uccelli fatti accoppiare tra loro nel corso di generazioni e generazioni, un po’ come negli odierni allevamenti intensivi di polli. Al contrario, la complessità del DNA è paragonabile con quella degli esemplari liberi di spostarsi in un più ampio areale. Secondo Wasef, quindi, gli ibis sarebbero stati catturati e tenuti in cattività solo per un brevissimo tempo prima di essere uccisi e imbalsamati.
Restano però dubbi sull’effettiva applicabilità dei risultati di uno studio con un così ristretto campione su un sistema che comprende milioni e milioni di mummie.