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Fotogrammetria, tomografia neutronica, indagine multispettrale, spettroscopia Raman, radiografia, TAC, modellazione 3D: astrusi tecnicismi rubati* agli scienziati, paroloni che, di tanto in tanto, leggete singolarmente sul mio blog ma che, tutti insieme, potrebbero spaventare i non addetti ai lavori. Non è questo il caso. Perché la nuova mostra temporanea del Museo Egizio di Torino, “ARCHEOLOGIA INVISIBILE” (13 marzo 2019 – 6 gennaio 2020), è tutto tranne che autoreferenziale, mirata ai soli esperti; al contrario, riesce nel difficile compito di spiegare al grande pubblico, in maniera semplice e pratica, l’apporto della scienza al campo dell’archeologia.
Premetto che non è semplice descrivere ciò che ho visto ieri durante l’anteprima stampa dell’inaugurazione perché l’esposizione è realmente innovativa – soprattutto per l’Italia -, e non solo negli strumenti tecnologici adottati. L’attenzione è rivolta verso gli “oggetti”, volutamente pochi per valotizzarli con più spazio e per non caricare il visitatore di troppi dati che dimenticherà appena uscito dall’edificio. Prima dell’ingresso della mostra vera e propria, vengono addirittura fatti parlare in prima persona con discorsi diretti usciti dalla “bocca” di moderni pezzi di vita quotidiana che, in futuro, diventeranno a loro volta reperti archeologici.
La ormai anacronistica funzione meramente espositiva dei musei è superata fornendo alle persone tutte quelle informazioni che l’Egizio ha acquisito negli ultimi anni grazie a progetti di studio dei reperti che hanno visto l’apporto di discipline scientifiche quali la fisica, la chimica e/o l’informatica. Informazioni non percepibili ad occhio nudo – ed ecco il significato del titolo – che spiegano la vera storia dei pezzi svelandone l’origine, la composizione, la funzione, gli eventuali rimaneggiamenti.
Informazioni nate grazie alla collaborazione con università e istituti di ricerca di tutto il mondo (MIT di Boston, Università di Oxford, Centro Conservazione e Restauro della Venaria Reale, Musei Vaticani, CNR ecc.), già pubblicate sulle principali riviste scientifiche ma ora finalmente divulgate in modo intuitivo per tutti. Una tale collaborazione è esemplificata dalle parole del direttore Christian Greco: “Lo scienziato e l’umanista devono lavorare sempre di più assieme per cercare di dipanare la complessità del mondo contemporaneo”.
Il coordinatore scientifico della mostra, Enrico Ferraris, durante la conferenza stampa si è definito un sarto per aver cucito insieme i contributi dei vari curatori che hanno portato le proprie esperienze e specializzazioni. Il percorso espositivo, infatti, si divide in tre macro-settori, ognuno dedicato alla vita archeologica di un reperto: scoperta, studio e conservazione. Si inizia quindi con la documentazione degli scavi che va dalle belle foto d’epoca – anche se qui proposte in 3D – della Missione Archeologica Italiana in Egitto (1903-1920) ai prodigi della fogrammetria – tecnica utilissima per rilevare velocemente i contesti archeologici e riportarli in modelli digitali – applicata agli scavi di Saqqara.
Poi si passa alle analisi diagnostiche effettuate, nell’ambito del “TT8 Project”, al corredo funerario della tomba di Kha e Merit, vero fiore all’occhiello del Museo Egizio. Ed ecco che, grazie a strumenti scientifici, si può guardare l’invisibile: XRF e ultravioletti permettono di studiare i pigmenti, le pennellate, le varie mani di pittura sovrapposte; la tomografia neutronica sbircia all’interno di vasi in alabastro sigillati da oltre 3400 anni (foto in alto); radiografie e TAC ‘sbendano’ mummie senza il pericolo di danneggiarle, scoprendo lo stato fisico dei defunti, le tecniche d’imbalsamazione e la presenza di amuleti.
Così, i corpi dell’architetto Kha e della moglie Merit sono affiancati da schermi che mostrano quest’autopsia virtuale che sfoglia, strato dopo strato, la copertura delle mummie. Grazie a questa tecnica è stato perfino possibile ricreare i gioielli dei coniugi, senza toccarli, grazie alla stampa 3D (foto a destra). Non siamo più di fronte alla caccia all’oggetto o agli “unwrapping party” vittoriani, ma a uno studio più etico e rispettoso dell’integrità del reperto. Stesso ragionamento si applica anche alle mummie animali che testimoniano pratiche religiose tipiche soprattutto del Periodo Tardo.
Ma accanto a gatti, coccodrilli, ibis e babbuini, non è inusuale incontrare anche falsi, realizzati – come mi racconta Federica Facchetti, curatrice della sala dedicata all’argomento – sia nell’antico Egitto che, a scopo di truffa commerciale, in epoche più vicine a noi. Quella che, ad esempio, sembra una mummia di un feto si è invece rivelata essere il corpo di un rapace, evidentemente meno appetibile di un bambino nel mercato antiquario ottocentesco (foto in basso).
Il terzo settore illustra il fondamentale ruolo dell’indagine archeometrica nello studio dei materiali e nella scelta delle tecniche da adottare per conservazione e restauro dei reperti più delicati, come le superfici parietali dipinte (esempio principale è la decorazione della tomba di Iti e Neferu da Gebelein), papiri (e l’unica pergamena conservata all’Egizio) e antichi tessuti che possono essere toccati con mano, ovviamente in riproduzioni moderne.
SPOILER ALERT: il percorso si conclude con una vera e propria sorpresa. Tutte le esperienze mostrate finora, infatti, vengono riassunte in un caso studio emblematico, quello del sarcofago di Butehamon, nella maniera più scenica e, aggiungerei, didattica possibile. La cassa antropoide dello scriba reale di III Periodo Intermedio (1070-712 a.C.) all’apparenza sembra un oggetto omogeneo, ma in realtà è il frutto dell’assemblamento di pezzi riciclati da almeno cinque sarcofagi più antichi e della sovrapposizione di diverse stesure di pittura ormai non più visibili.
Ma tutti questi interventi, riscoperti grazie a indagini diagnostiche non invasive, tornano a palesarsi direttamente su una copia a grandezza naturale, sulla quale vengono proiettate immagini. Così, mentre i due schermi laterali spiegano tutte le fasi di realizzazione dell’oggetto, il sarcofago si trasforma e il nudo legno si ricopre gradualmente di geroglifici, scene, colori. Una scelta museale sicuramente innovativa, quasi spaziale… e non è un caso che la proiezione sia accompagnata dalla colonna sonora del film “Interstellar”.
*Cito la divertente provocazione di Andrea Augenti che scrive nel catalogo della mostra (da notare la geniale trovata della sopracopertina opaca che rende quasi invisibili le immagini della copertina): “gli archeologi rubano. […] Rubano agli altri mestieri gli attrezzi e il lessico; rubano persino le leggi che regolano il metodo del loro stesso lavoro!”