“Belfagor – Il fantasma del Louvre” (blooper egittologici)

"Belfagor - Il fantasma del Louvre" (blooper egittologici) - Djed Medu

Questa volta, mi sono veramente pentito di aver iniziato la rubrica “Blooper egittologici”. Se non avessi dovuto scrivere l’articolo, mi sarei fermato al terzo minuto di film! Comunque, semi-citando Montanelli, mi sono turato il naso e ho guardato fino all’ultimo fotogramma “Belfagor – Il fantasma del Louvre”, remake di Jean-Paul Salomé della famosa serie televisiva francese del 1965. In realtà, le analogie sono veramente poche, a partire dalla trama: nello sceneggiato (a sua volta basato su un romanzo di Arthur Bernède che ne trasse anche un film muto nel 1927), una misteriosa figura oscura si aggira nelle sale del museo provocando la morte di alcuni custodi. Si diffonde il panico e voci sulla presenza di un fantasma, ma le indagini di un investigatore riveleranno lo zampino della setta esoterica dei Rosa Croce interessata ai segreti alchemici dietro la statua di Belfagor (ecco il perché del nome che, nel film, viene ignorato completamente), divinità solare moabita poi inclusa nella schiera dei demoni con il Cristianesimo. Il bello della serie sta proprio nell’atmosfera noir, nel mistero, nella verità rivelata solo alla fine (cosa che, come vedremo, Salomé rovinerà subito), nelle presunte attività paranormali che, in realtà, si limitano al controllo ipnotico della mente.

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La pellicola del 2001, invece, racconta di un fantasma vero e proprio che si risveglia da una mummia egizia in un magazzino perduto e ritrovato durante la costruzione della celebre piramide di vetro. I lavori di rimodernamento del Grand Louvre, con il progetto iniziato proprio con la realizzazione del discusso nuovo ingresso, erano stati completati solo da due anni, così sembra chiara la volontà dei produttori di sfruttare la conseguente attenzione mediatica. Ne viene fuori l’ennesimo scontato film sulla maledizione della mummia con espedienti forzati, attori improbabili, dialoghi ridicoli ed effetti speciali degni della peggiore fiction tedesca degli anni ’80. Il tutto peggiorato dal doppiaggio italiano che, come al solito, storpia spesso nomi e termini tecnici (per questo eviterò di segnalarli). Il risultato è un “horror” demenziale che vi consiglio di perdere.

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La mummia in questione viene scoperta nel 1935 dal Prof. Desfontaines, archeologo che più stereotipato di così non si poteva (vedi immagine in alto a sinistra), in una tomba a Luxor. Nell’aprire il sarcofago, però, l’egittologo viene impossessato dallo spirito del defunto che, durante il viaggio in nave verso la Francia, spinge al suicidio tutti i membri della ciurma. Lo stesso Desfontaines muore mummificato in un armadietto… Una volta portato al Louvre, il sarcofago è dimenticato fino ai già citati lavori di restauro del museo (in alto a destra); così, il direttore Bertrand Faussier affida lo studio del reperto alla studiosa del British Museum Glenda Spender. Da subito, si cerca l’identità del defunto il cui nome è stato cancellato dalla bara; a una prima analisi visiva, si sa solo che fosse un sacerdote, membro della famiglia reale durante la XX dinastia e l’epoca “ramsetea” (esempio degli scempi dell’adattamento italiano). Poi, iniziano gli esami scientifici con la TAC alla mummia che rivela la mancanza di amuleti e, pronti partenza via, già al minuto 5:27, viene buttata nel cestino ogni basilare regola della suspense mostrando l’invisibile e svolazzante ectoplasma arancione che abbandona il corpo del defunto (in basso a sinistra) e si va a infilare in una presa della corrente, come Slimer in “Ghostbusters”…

hLa presenza dell’entità crea subito problemi all’impianto elettrico del museo; nonostante ciò, la Spender (che a un certo punto si mette a giocherellare con le bende senza indossare guanti) continua lo studio della mummia con metodi decisamente invasivi: il corpo subisce una vera e propria autopsia da parte di un medico legale che gli apre l’addome e  il cranio con una sega circolare (in alto a destra). È superfluo puntualizzare che, ormai da decenni, si tende a toccare il meno possibile le mummie lasciandole nei loro involucri originali. Dalla prima incisione, l’egittologa estrae le viscere avvolte a parte (perché rimetterle nel cadavere quando c’erano i vasi canopi?); invece, sotto le bende del volto, viene trovata un’improbabile maschera di bronzo – primo stiracchiato espediente per ricollegarsi alla serie TV – che, una volta tolta, permette alla bocca di aprirsi improvvisamente (sì, lo so, i tessuti disidratati non dovrebbero avere una tale elasticità, ma concediamo almeno questa scena “d’impatto”). Il Direttore, manco fossimo al CERN di Ginevra, afferma che, grazie a un acceleratore di particelle, è stato stabilito che la mummia abbia 3502 anni (mese e giorno no?), datazione che, però, coinciderebbe con la XVIII dinastia e non con la XX (1188-1078 a.C.).

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A questo punto, Lisa, la protagonista del film interpretata da Sophie Marceau, tramite un tunnel scavato per sbaglio dagli operai che collega il museo a casa sua, si ritrova nei laboratori del Louvre e viene impossessata dallo spirito. Si scopre, infatti, che il fantasma è il ba di un uomo avvelenato a cui, per motivi punitivi, non fu garantita la cerimonia funebre; per questo, ha bisogno di un corpo tangibile per completare tutti i rituali e per raggiungere finalmente l’Aldilà. Così, Lisa indossa la maschera e il costumone cerimoniale (secondo collegamento con la serie) – “ricostruito partendo da un singolo frammento di tessuto” (vedi in alto) – e si aggira per la sezione egittologica alla ricerca di sette amuleti e di un anello-scarabeo. Quando non vengono usati gli effetti speciali, Belfagor scivola sul pavimento con evidenti rotelle, un po’ come gli arcangeli Gabriele e Michele nelle apparizioni mistiche di Fantozzi. I custodi cominciano a morire l’uno dopo l’altro, spinti al suicidio da proiezioni mentali delle loro peggiori fobie e la polizia richiama l’ispettore in pensione Verlac che si era occupato di casi simili negli anni ’60. La rabbia del fantasma non si placa perché l’anello si trova nel cimitero monumentale di Père-Lachaise, nella tomba a piramide di Desfontaines. L’ispettore fa riesumare il cadavere per recuperare lo scarabeo su cui Spender legge finalmente il nome del misterioso egiziano: Neb-Mes-Ur-Maa (=Il Grande Profeta Nebmose). Una volta invocato, Neb-Mes parla per bocca di Lisa in una lingua che l’egittologa definisce erroneamente copto. Il copto, infatti, è la fase linguistica dell’egiziano che usava l’alfabeto greco più altri 7 segni demotici e che nacque nel II sec. d.C., oltre un millennio dopo la XX dinastia a cui dovrebbe appartenere la mummia. Il sacerdote chiede che sia officiata l’ultimo rituale e, pur di liberarsi del problema, i protagonisti ricreano l’ambiente per la “cerimonia dell’apertura della bocca”. Il rito permetteva la vita eterna al defunto attraverso l’apertura simbolica e magica della bocca della statua o della mummia del morto affinché potesse respirare e parlare nell’Aldilà. Per far ciò, il sacerdote utilizzava l’ascia “setep” (in basso a destra, dalla tomba di Nakhtamon a Deir el-Medina, @osirisnet.net), molto diversa dal falcetto che si vede nel film (a sinistra). In ogni caso, tutti gli amuleti e l’anello vengono ricollocati al loro posto e il fantasma può finalmente raggiungere la Duat attraverso una falsa porta.

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