(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’antico Egitto che circolano nel web e non solo)
Domani uscirà nei cinema italiani “Napoleon”, l’ultimo colossal di Ridley Scott con Joaquin Phoenix nei panni del generale corso. La pellicola già dal trailer aveva ricevuto diverse critiche su palesi inesattezze storiche, che però il regista ha rimandato al mittente con un caustico “Fatevi una vita“. In attesa di vedere il film, vorrei parlare di una delle tante mitiche storie nate attorno alla Campagna in Egitto di Bonaparte.
Tra il 1798 e il 1801, l’armata di Napoleone cercò vanamente di conquistare l’Oriente; contestualmente alle operazioni militari, però, 167 savant (scienziati) furono protagonisti di un monumentale lavoro di documentazione del patrimonio storico, architettonico, archeologico e naturale dell’Egitto. Grazie a questa spedizione e alla conseguente pubblicazione della “Description de l’Égypte” e di altri volumi, si diffuse in tutta Europa una vera e propria egittomania che portò alla rifioritura di un gusto artistico neo-egizio – già vivo nel Settecento -, alla formazione delle prime collezioni di antichità egizie e alla nascita del “germe” della disciplina egittologica, che maturerà solo con la decifrazione del geroglifico (1822) e la prima spedizione egittologica vera e propria, quella Franco-Toscana di Ippolito Rosellini e Champollion (1828-29).
Alle milizie francesi è tradizionalmente imputato anche un grave danno a uno dei più famosi monumenti della civiltà faraonica. Secondo una diffusa leggenda, infatti, il naso della Grande Sfinge di Giza sarebbe stato distrutto dalle cannonate di soldati annoiati o intenti ad affinare la loro mira (come si vede a sinistra in una delle “esilaranti” vignette della Settimana Enigmistica).
D’altronde, l’essere presi a cannonate o fucilate è il triste destino di diversi edifici antichi. Uno degli esempi più recenti e tristemente noti è quello dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, abbattuti nel 2001 dalla furia iconoclasta dei talebani. Andando più in là con il tempo, invece, la leggenda che dà il nome a El Khasneh al Faroun, l’iconico monumento funerario di Petra, ha portato nel XIX secolo beduini e visitatori europei a sparare contro l’urna scolpita in alto sulla facciata nella speranza di far cadere “il tesoro del Faraone”.
Tornando al topic dell’articolo, dopo che nei secoli XVI, XVII e XVIII l’enigmatica Sfinge era stata raffigurata da studiosi e viaggiatori tramite cliché idealizzati – che spesso mettevano in risalto inesistenti tratti femminili o si rifacevano a fonti classiche indirette – le pubblicazioni “napoleoniche” mostrarono al pubblico il vero volto sfigurato del colosso (Description de l’Égypt, Antiquités, tome V: planches, 1822, pl. 11 e ancor prima Vivant Denon 1802, pl. 17). Forse è proprio in questo periodo che nacquero le dicerie attorno ai soldati di Bonaparte e al naso della Sfinge. Perché di dicerie effettivamente si tratta. Basta vedere quello che, 44 anni prima che le truppe francesi toccassero il suolo egiziano, venne pubblicato nel resoconto del viaggio in Egitto effettuato nel 1737-38 dall’ufficiale ed esploratore danese Frederic Louis Norden. Nelle tavole allegate è evidente che il naso mancasse già (immagine in basso) e lo stesso Norden racconta il suo sdegno di fronte all’atto vandalico (p. 85):
“[…] on arrive au Sphinx, dont on admire la grandeur énorme, en concevant une forte d’indignation pour ceux, qui ont eu la brutalité de maltraiter étrangement son nez.”
“[…] arriviamo alla Sfinge, di cui ammiriamo l’enorme imponenza, provando un forte senso di indignazione per chi ha avuto la brutalità di maltrattare sorprendentemente il suo naso.”
Allora chi è stato? Secondo Goscinny e Uderzo, il colpevole sarebbe stato uno sbadato Obelix; secondo la Disney, invece, Aladdin e Jasmine sul tappeto volante.
Fumetti e cartoni a parte, il problema è che mancano fonti coeve del misfatto, oltre ovviamente alla gigantesca appendice di pietra – mai ritrovata al contrario della barba – che in origine doveva essere alta 2,20 metri e larga 1,20. Tuttavia, se nelle cronache europee si riscontra una generale mancanza di attenzione al particolare, qualcosa in più la sappiamo dai testi in lingua araba in cui la Grande Sfinge è chiamata Abu el-Hol, “il padre del terrore”. Con la sola testa che spuntava dalla sabbia, questo millenario “mostro” doveva sicuramente incutere timore e riverenza, tanto da essere oggetto di superstizioni anche nel mondo islamico. Considerato quasi un talismano per buone inondazioni del Nilo e raccolti abbondanti, la Sfinge entrò nel folklore delle popolazioni locali. Non è un caso che gli autori medievali egiziani parlino proprio di iniziative iconoclastiche atte ad arginare queste derive pagane, soprattutto durante il sultanato mamelucco nel XIV secolo. A tal proposito, lo storico cairota Al-Maqrizi (1364-1442), nella sua opera “al-Mawāʿiẓ wa al-iʿtibār fī dhikr al-khiṭaṭ wa al-athār” racconta un fatto che sarebbe accaduto qualche decennio prima (pp. 352-353 nell’edizione in francese del 1900). Nel 1378, lo sceicco sufi Muhammad Saim al-Dahr si sarebbe imbestialito vedendo contadini fare offerte alla Sfinge e per questo ne avrebbe distrutto il naso e danneggiato le orecchie. Tuttavia, questa reazione, considerata vandalica, avrebbe provocato l’impiccagione dell’autore e, sconfinando nel soprannaturale, l’avanzamento del deserto a Giza. Un’altra versione viene riportata più tardi dall’astronomo Al-Minufi (1443-1527) che, pur non nominando lo sceicco, asserisce che la punizione divina alle sue azioni sarebbe stato lo scoppio della Crociata alessandrina del 1365 (El-Daty 2005, p. 89). Anche in questo caso, però, non si può essere certi delle fonti appena riportate. La mancanza di conferme concrete e, al contrario, la presenza di elementi prodigiosi porterebbero a pensare che si tratti di opere almeno in parte compromesse da intenzioni propagandistiche dal sapore politico-religioso.
La verità è che non si sa con certezza né quando né perché sia caduto il naso della Sfinge. L’erosione da agenti atmosferici e i terremoti hanno sicuramente avuto un ruolo importante, ma l’asportazione sembra intenzionale. Sono infatti evidenti due segni che attraversano il setto nasale e la narice sinistra (immagine a destra). Mark Lehner, egittologo americano che lavora da decenni a Giza, ha stabilito che sono tracce di strumenti, lunghi scalpelli o cunei, utilizzati per far saltare il naso verso sud tra il III e il X secolo d.C. (1994, p. 180; 2001, p. 41).
Bibliografia:
- Commission d’Égypte (éd.), Description de l’Égypte, 1er ed., Paris 1809-1829.
- Denon V., Voyage dans la Basse et la Haute Égypte, Paris 1802.
- El-Daty O., Egyptology: The Missing Millennium : Ancient Egypt in Medieval Arabic Writings, London 2005.
- Lehner M., “Documentation of the Sphinx“, in Esmael F. A. (ed.), The First International Symposium on the Great Sphinx. Book of Proceedings, Cairo 1992, pp. 54-107.
- Lehner M., Archaeology of an Image: The Great Sphinx of Giza, Ph.D. Dissertation, Yale University, 1991. Ann Arbor 1994.
- Lehner M., The Complete Pyramids, London 1997 (ed. 2001).
- Maqrizi [Trad. Bouriant U]., Description topographique et historique de l’Égypte, Le Caire 1900.
- Norden F. L,, Voyage d’Egypte et de Nubie, Copenhague 1755.
- Smith M., “Pyramids in the Medieval Islamic Landscape: Perceptions and Narratives”, JARCE 43 (2007), pp. 1-14.
- Stephan T., “Writing the Past: Ancient Egypt through the Lens of Medieval Islamic Thought”, in Lowry J.E., Toorawa S.M. (eds), Arabic Humanities, Islamic Thought, Leiden-Boston 2017, pp. 256-270.
- Zivie-Coche C. M., Sphinx: History of a Monument, Ithaca & London 2002.