(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)
Oggi faremo luce – espressione quanto mai azzeccata – sulla bufala che riguarda gli OOPArt (Out Of Place Artifact) più famosi d’Egitto, le “Lampade di Dendera”, considerate insieme alla cosiddetta “Pila di Baghdad” la principale prova dello sfruttamento già in antichità dell’energia elettrica. Queste lampadine ‘ante Edison’ si trovano a Dendera, località a circa 70 km a nord di Luxor, più precisamente nel tempio tolemaico di Hathor. Al di sotto dell’edificio, 12 camere sotterranee, ognuna dedicata a una diversa divinità, erano utilizzate per la conservazione degli arredi sacri probabilmente già nel Nuovo Regno, ma furono decorate solo sotto Tolomeo XII (80-51 a.C.) con testi geroglifici e scene che comprendono anche le lampade e altre immagini, come vedremo, mal interpretabili.
Quarant’anni dopo la scoperta delle cripte, effettuata da Auguste Mariette nel 1857, lo scienziato britannico Norman Lockyer affermò che sulle lastre parietali fossero rappresentate grosse lampade a incandescenza simili ai “Tubi di Crookes“, dando vita così alla bufala. C’è chi crede addirittura che Crookes, nei primi anni ’70 dell’800, abbia preso spunto dalle pubblicazioni di Mariette per la sua invenzione. Peccato che i sei volumi di “Dendérah: description générale du grand temple de cette ville” furono stampati tra il 1870 e il 1875. In ogni caso, sempre più persone cominciarono a parlare di un sistema d’illuminazione composto da corpi globulari di vetro e filamenti metallici interni che si sarebbero surriscaldati fino a irradiare fotoni. Alcuni hanno anche provato a riprodurne il modello (vedi foto in alto).
Ma come veniva creata la corrente? Semplice! Sarebbero esistiti generatori che, attraverso cavi, convogliavano l’elettricità in grandi accumulatori, come si vede nel rilievo della I Cripta Sud, consacrata ad Hathor-Iside (immagine a sinistra). Ovviamente sono sarcastico perché sto parlando dell’ennesimo esempio di quanto i ‘piramidioti’ cerchino il mistero anche dietro fatti acclarati. L’elemento rappresentato, infatti, è una versione particolarmente complessa di un oggetto ben noto agli egittologi: la menat. La menat (foto in basso a sinistra) è una collana formata da un ampio pettorale di perline e da un contrappeso che ricadeva dietro la schiena, utilizzata come strumento musicale e, essendo un attributo di Hathor, anche come simbolo cultuale. Quindi, non è un caso che quest’oggetto sia presente proprio nella cripta dedicata alla dea anche definita “La Signora della menat”. Fra l’altro, quelle che dovrebbero essere le cabine dell’ENEL sono invece quattro sistri, strumenti a percussione forse più conosciuti dal grande pubblico e altro attributo di Hathor, per questo raffigurati anche sui capitelli delle colonne della facciata del tempio (foto in basso a destra).
Proseguendo verso est, si arriva alla cripta di Horus Sematawi, dove finalmente troviamo i nostri OOPArt. Anche in questo caso, sono costretto a far ricorso alla pareidolia, cioè a quel processo mentale che ci fa vedere forme note in composizioni casuali. Le lampade, infatti, sono tali solo per il nostro cervello di uomini moderni, abituato a codificare quel tipo di oggetto ogni giorno e meno avvezzo ai miti cosmogonici egizi che sono il vero soggetto dei bassorilievi: un serpente spunta da un loto che, a sua volta, nasce dalle acque primordiali (Nun). Il serpente rappresenta il Sole Bambino, Horus Sematawi (“Colui che riunifica le Due Terre”), mentre sorge nel fiore che è un altro simbolo solare. Non a caso, la cripta si trova nell’angolo S-E del tempio rispettando la topografia celeste degli edifici religiosi egiziani. Ricapitolando, il filamento è invece il rettile, l’ampolla è il bocciolo, il cavo è il gambo, la base a vite della lampadina è il pilastro djed, segno di stabilità che sorregge il loto permettendo la prima creazione della vita e la sua ripetizione ciclica giornaliera. Il serpente è anche l’emblema della fertilità che veniva portato in processione durante le feste dedicate al dio che si celebravano i primi giorni del raccolto. Durante questi eventi, i sacerdoti trasportavano una barca sacra in cui veniva collocato proprio ciò che è raffigurato sulle pareti della cripta e che si può vedere meglio in un’altra versione in cui Horus ha le fattezze più comuni del falco:
Quindi, le camere sotterranee non erano illuminate da faretti alogeni, ma rimanevano al buio tutto l’anno per conservare queste reliquie che erano mostrate alla popolazione solo in occasione delle relative feste. Se non fosse sufficiente la precedente interpretazione iconografica, basterebbe leggere i testi geroglifici che ci forniscono l’inventario delle cose custodite nella stanza:
“Horus-Sematawi, il grande dio che prende posto in Eliopoli, l’anima vivente nel loto e nella barca notturna, ferro, 4 palmi” (Cauville, Dendara V, 140,5)
Viene così descritta una barca di ferro di 30 cm che trasporta l’immagine del dio, in forma di serpente rampante su fiore di loto (Dend. V, 33,5), realizzata in oro (Dend. V, 144,3). In conclusione, nessuno dovrà pagare una salata bolletta della luce.