L’articolo che segue fornisce una interessante panoramica generale sulla nascita e l’evoluzione del Museo Egizio di Torino, la cui collezione è seconda solo a quella del Cairo. L’autrice del pezzo è Elisabetta Colombo, laureata magistrale in Egittologia proprio nella città dove sorge il museo, presso l’Università degli Studi di Torino.
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Il fascino dell’antico Egitto ha colpito ripetutamente nel corso dei secoli. La magnificenza dei monumenti sopravvissuti, assunti a testimoni di un passato glorioso, unita al mistero emanato dalla scrittura geroglifica, per molto tempo rimasta incomprensibile, hanno contribuito ad accrescerne il prestigio. L’Egitto appariva, in un certo senso, come uno scintillante scrigno chiuso da una combinazione impossibile da decriptare. Proprio per questo motivo, le dinastie europee del XVI secolo guardavano a quel mondo come a un universo mitico e inarrivabile, utile a nobilitare il proprio potere: non fa eccezione quella Savoia, impegnata proprio in quegli anni nella fortificazione della nuova capitale del proprio Ducato: Torino. A seguito della scoperta di una iscrizione recante il nome della dea Iside, gli intellettuali del tempo si profusero in fantasiose genealogie mitologiche, secondo cui Augusta Taurinorum avrebbe avuto origini egiziane. Tra costoro si possono citare Filiberto Pingone o Emanuele Tesauro. È tuttavia solo nel XVII secolo che i Savoia decisero di abbellire la città con un gran numero di opere d’arte, inaugurando la “Grande Galleria” delle antichità greche e romane, in cui sarebbe stata ospitata anche parte della collezione reale. Quest’ultima era costituita da oggetti di diversa provenienza, alcuni dei quali acquistati dai sovrani, in particolare da Carlo Emanuele I. Tra i reperti probabilmente presenti in questo ensemble, si annovera anche quello che è ritenuto l’oggetto fondante della collezione del futuro Museo Egizio: la Mensa Isiaca (disegno a destra tratto da “Œdipus Ægyptiacus” di Athanasius Kircher). Si tratta di una tavola d’altare in bronzo ageminato in argento, rame e niello, riportante raffigurazioni e segni egittizzanti, all’epoca scambiati per veri geroglifici. La tradizione vuole che sia stata salvata dal sacco di Mantova del 1527 e che, dopo essere stata di proprietà del cardinale Pietro Bembo, sia stata venduta dal figlio ai Gonzaga. I Duchi di Mantova l’avrebbero poi donata ai Savoia. La provenienza dell’oggetto è tuttavia misteriosa, dal momento che negli atti del 1631 non viene menzionata, sebbene si ritenga che sia stata donata tra il 1626 e il 1630; si può quindi verosimilmente ipotizzare che non facesse parte del nucleo di Carlo Emanuele I, ma che avesse una provenienza diversa, per noi, oggi, ancora ignota. Lo stupore e la curiosità prodotti da tale oggetto fomentarono la propaganda sabauda di una “Torino egiziana”, rimasta poi anche nei secoli successivi e testimoniata dal carro funebre reale, di sapore decisamente egittizzante. Studiosi e intellettuali cercarono di decifrare i segni riportati sulla Mensa, ma non riuscirono ad arrivare a una conclusione soddisfacente. Ad oggi sappiamo che la tavola bronzea non è di fattura egiziana, bensì di probabile produzione romana: risalirebbe al I secolo d.C. e risponderebbe al gusto occidentale per i culti isiaci, molto in voga in quell’epoca. Si ipotizza addirittura che potesse essere collocata nell’ Iseo Campense di Roma per la sua ricchezza tanto di materiali quanto di particolari.
Nel 1724, Vittorio Amedeo II fece poi spostare tutta la collezione, composta come descritto sopra, nel nuovo Museo dell’Università: vi erano qui ben cinque aree distinte, di cui una dedicata agli oggetti rari. Nel nucleo sabaudo emerse allora un altro oggetto che destò notevole curiosità: si tratta di una testa, attribuita ad Iside, con incisioni misteriose sul volto. Ritenendo tali segni geroglifici, gli studiosi avvalorarono sempre di più l’ipotesi di una “Torino egizia”. Anche questa volta, però, si trattò di un errore. La testa in questione era in realtà seicentesca e i segni presenti riconducibili alla cabala. Pochi anni dopo, tuttavia, Carlo Emanuele III, immerso in un clima culturale nuovo e misterioso come quello della massoneria e dell’esoterismo, decise di finanziare una spedizione in Egitto con un duplice scopo: in primis, informarsi su quali fossero le condizioni del paese da un punto di vista delle risorse primarie per appurare se fosse possibile trarne qualche vantaggio economico; in secondo luogo, acquisire oggetti e opere antiche insieme a conoscenze naturalistiche per la creazione di un Orto botanico. Per questa spedizione fu scelto Vitalino Donati, giovane botanico il cui Giornale di Viaggio
originale non è purtroppo giunto fino a noi, sebbene ve ne siano due copie che ci consentono di conoscerne il contenuto. Oltre all’ingente opera di catalogazione dello studioso, quello che ritornò in patria furono tre pezzi artistici, fondamentali per la costituzione del futuro Museo Egizio: una statua di Iside trovata a Coptos (immagine a destra) e risalente alla XVIII dinastia, una statua di faraone incedente, di epoca tutmoside ma riutilizzata in epoca ramesside, ritrovata a Karnak e quella che viene descritta come «la schiava nera», ovvero una Sekhmet seduta, rinvenuta nel tempio di Mut nella medesima località della precedente. Oltre a questi reperti di notevole importanza, furono riportati anche altri oggetti minori che arricchivano la collezione. Alla fine del ‘700, quindi, la collezione del futuro Museo Egizio era costituita dalla Mensa Isiaca e dai reperti riportati da Donati. È tuttavia l’‘800 ad essere il secolo in cui l’insieme dei reperti raggiunse un numero e un’importanza tali da diventare secondo solo a quello del Cairo. Questo fu possibile grazie a due brillanti personalità: Bernardino Drovetti prima ed Ernesto Schiaparelli poi.
Drovetti arrivò in Egitto nel 1803 come fervente sostenitore di Napoleone Bonaparte e con il titolo ufficiale di Sottocommissario alle Relazioni Commerciali per la Francia. La situazione dell’Egitto era però ormai disastrosa: dopo la battaglia di Abukir del 1801 e la disfatta delle truppe francesi, gli Inglesi avevano requisito le antichità raccolte dai nemici, mandandole in Inghilterra. Tra queste vi era anche la famosa Stele di Rosetta, la cui scoperta stimolò una corsa alla decifrazione dei geroglifici, conclusasi soltanto nel 1822 ad opera di Champollion. Divenuto amico del viceré Mohammed Ali, Drovetti iniziò un’attività di raccolta di antichità ed oggetti preziosi con l’ambizione e la speranza di poterli vendere alle casate reali europee, le quali, a quel tempo, gareggiavano per accaparrarsi i pezzi migliori. Egli intraprese pertanto un viaggio lungo tutto l’Egitto, visitando alcuni siti e lasciando segni indelebili del suo passaggio: l’archeologia scientificamente strutturata non esisteva ancora, purtroppo.
Nel 1818, si svolse un incontro decisivo: Drovetti e il Conte di Forbin, Direttore dei Musei Reali di Francia, si incontrarono a Tebe per discutere i dettagli della compravendita della collezione fino ad allora creata. Complice la cattiva fama del funzionario italiano, dovuta principalmente alle sue simpatie politiche per Napoleone, ormai sconfitto, e la cifra esorbitante richiesta, la Francia non si aggiudicò i reperti. Essi furono invece acquistati l’anno successivo dai Savoia su consiglio di Carlo Vidua: questa avrebbe reso l’Italia un grande paese, dotato di una grande collezione romana a Roma, una rinascimentale a Firenze e una egiziana a Torino.
La collezione sabauda si ampliò dunque notevolmente grazie alle ricerche di Drovetti, ma il nucleo maggiore di reperti si deve all’opera di ricerca di Ernesto Schiaparelli, direttore del Museo dal 1894 al 1928: sono più di 40 000 i reperti riportati dalle campagne di scavo intraprese da costui in Egitto, durate per più di vent’anni. L’attività sul campo, condotta sotto l’egida della M.A.I., la Missione Archeologica Italiana, fondata da Schiaparelli stesso nel 1903, è testimoniata in tutti i suoi particolari dai diari di scavo. A questi si affiancano poi lastre fotografiche ad oggi importantissime, dal momento che permettono di contestualizzare correttamente i manufatti nel luogo di ritrovamento. Tra i ritrovamenti più importanti vanno indubbiamente citati la città di Deir el-Medina – chiamata in antico Set-Maat, «il Luogo della verità», sede di 120 famiglie di operai impiegati nella decorazione delle tombe della Valle dei Re e delle Regine – e la vicina tomba intatta di Kha, capo architetto del Nuovo Regno, il cui corredo comprendeva ben 550 oggetti.
La storia del Museo Egizio durante il ‘900 è più difficile da ricostruire, soprattutto per quanto riguarda gli anni delle due guerre mondiali. Sotto la direzione di Giulio Farina tuttavia l’attività di ricerca continuò in modo molto proficuo: il sito di Gebelein fu indagato a fondo e fu scoperta la cosiddetta Tela di Gebelein costituita, ad oggi, da frammenti di tessuto di epoca predinastica con disegni di barche e ippopotami. L’antichità del reperto, seppur frammentario, ha generato molto stupore nella comunità scientifica che, dopo un restauro radicale, si è subito profusa in uno studio attento e puntuale del manufatto. Durante il secondo conflitto mondiale, invece, dopo le numerose pressioni del direttore al Governo Italiano affinché concedesse l’evacuazione dei reperti per salvarli dai bombardamenti, il Museo ottenne l’autorizzazione per spostare la collezione nel Museo di Agliè, dove rimase fino a che le condizioni furono idonee per un ritorno in città.
E oggi? Dopo un grande restauro e una massiccia risistemazione dell’intero Museo negli anni ’90, nel 2015 si è proceduto a un nuovo allestimento della collezione. La cultura materiale di cui questa istituzione è custode viene ora reinterpretata secondo due categorie: prosopografica, ovvero seguendo la storia degli individui cui sono correlati gli oggetti, e archeologica, mediante la descrizione di siti e ricostruzione di alcuni contesti. A questi si aggiungono i disiecta membra, ovvero tutti gli oggetti che appartengono a corpora un tempo unitari e che oggi sono stati smembrati nei diversi musei del mondo. La ricchissima collezione torinese, composta quindi dai grandi nuclei di Donati, Drovetti e Schiaparelli e della M.A.I., è così di nuovo al centro dell’attenzione. Il nuovo approccio moderno permette infatti di affiancare didattica e ricerca, intrattenimento e arricchimento, in un’ottica di fruizione culturale diretta sia a specialisti sia ad amatori. Non possiamo che augurare !
Elisabetta Colombo
Bibliografia per approfondire
- AA. VV., Museo Egizio, Catalogo, Modena 2015.
- Greco C., Il nuovo Museo Egizio: tra passato e futuro, in Rivista MuseoTorino 7 (2014), 32-35;
- Moiso B., La storia del Museo Egizio, Modena 2016;