A pochi giorni dalla premiazione dei 92i Academy Awards, vi presento l’ultimo (per ora) film a ispirazione ‘egittologica’ ad aver vinto almeno un oscar. Era il 1999, quando la statuetta per la miglior canzone andava a “When You Believe”, parte della colonna sonora de “Il Principe d’Egitto”.
Secondo cartone della DreamWorks, “Il Principe d’Egitto” aveva riscosso un enorme successo l’anno prima intaccando il monopolio Disney dei lungometraggi animati. Un ingente investimento finanziario, spettacolari disegni fatti a mano uniti alle prime ricostruzioni 3D di scene di attori in carne e ossa, famose star hollywoodiane a doppiare le voci dei personaggi e una colonna sonora – come detto – da oscar erano serviti a riportare in sala una vecchia, anzi, un’antichissima storia. Si tratta infatti del remake animato de “I Dieci Comandamenti”, celebre trasposizione cinematografica del racconto biblico dell’Esodo, poi riprosposto più recentemente anche in “Exodus – Dei e re”.
Effettivamente c’è poco da aggiungere alla lettura della trama: Mosè viene lasciato dalla madre in una cesta sul Nilo, è salvato dalla moglie del faraone Seti I (nell’originale, dalla figlia), diventa principe e fratellastro di Ramses II, scopre per caso le sue origini ebraiche, fugge dalla corte, parla con Dio, torna in Egitto per salvare il suo popolo, fa miracoli, piaghe, apertura del Mar Rosso, stop. La storia si ferma qui perché, come è evidente dal titolo, il focus non è tanto sull’Esodo, ma sulla vita di Mosè in Egitto. Quindi, a parte qualche licenza storico-artistica comunque segnalata prima dei titoli di testa, non vediamo niente di nuovo; per questo vi rimando all’articolo sul colossal di DeMille per un’analisi più accurata degli errori egittologici e dei riferimenti storici riscontrabili nella Bibbia.
Vale invece la pena soffermarsi sull’estetica delle immagini e, soprattutto, degli sfondi che – parere personale – sono il pezzo forte della pellicola. Come negli acquerelli ottocenteschi di David Roberts, le minuscole figure umane servono solo come metro di riferimento per la grandiosità dei monumenti egizi. Fin dalle prime scene, gli schiavi ebrei vengono mostrati mentre lavorano alla costruzione di giganteschi templi e statue colossali in una generica capitale in cui si mescolano architetture menfite e tebane come le piramidi e la sfinge di Giza e la foresta di colonne della Grande sala ipostila di Karnak.
Oltre agli spunti alle antiche costruzioni è evidente anche un’ispirazione ai paesaggi naturali egiziani che una squadra di disegnatori ha osservato di persona, riprendendo soprattutto i profili delle alture rocciose della Valle dei Re. Per quanto riguarda i visi allungati e gli occhi a mandorla di personaggi e statue, invece, si nota un generale riferimento all’arte amarniana che è mostrata più palesemente in un paio di scene in cui erroneamente l’Aton dai raggi con le mani appare anacronisticamente in un periodo di circa 80 anni più recente (immagini in basso).
Quest’ultimo, se si escludono i classici errorini veniali, è forse l’inesattezza più grossolana in un film che invece contiene più di una chicca. D’altronde, nel cast risulta anche un egittologo come consulente: Daniel Polz, oggi direttore scientifico dell’Istituto Archeologico Tedesco al Cairo, ma all’epoca decisamente più vicino agli studi della DreamWorks Animation perché professore associato presso la University of California a Los Angeles. Non è un caso che il copricapo ad avvoltoio venga indossato giustamente dalla Regina (immagine in basso a sinistra), accortezza invece non seguita 16 anni dopo da Ridley Scott che manda Ramses ad inseguire gli Ebrei con un attributo tipicamente femminile al posto della corona blu da battaglia.
Una piccola particolarità: “Il Principe d’Egitto” è il terzo lungometraggio animato – dopo “Asterix e Cleopatra” (1968) e “Aladdin” (1992) – in cui, per un motivo o l’altro, i protagonisti fanno cadere accidentalmente il naso della Sfinge!