Spostiamoci nelle Marche. Avendo passato un fine settimana a Comunanza, luogo di nascita del compianto Adriano Luzi (il restauratore della tomba di Nefertari), ho avuto l’occasione di visitare il vicino Museo Archeologico Statale di Ascoli Piceno. Ospitato nel cinquecentesco Palazzo Panichi, il museo nacque nel 1865 come esposizione dei reperti del territorio ascolano, partendo dal nucleo originario della Civica Collezione Archeologica (una donazione settecentesca del Vescovo Mazzoni). Grazie agli scavi della Soprintendenza delle Marche, la collezione si è accresciuta nel tempo fino ad arrivare oggi ad oltre 15.000 reperti. Il percorso espositivo è incentrato sulla storia del territorio, dalla preistoria alla dominazione romana e, per il momento, comprende due sezioni: quella Protostorica (IX-III sec. a.C.) riallestita recentemente e quella Romana con il lapidario. Una terza sezione, quella Preistorica, è in fase di allestimento nel terzo piano dell’edificio. Ovviamente, gran parte del museo è dedicata alla civiltà dei Piceni, popolo italico che visse nel I millennio a.C. tra i fiumi Foglia e Aterno (quasi tutte le Marche e le provincie di Teramo e Pescara) prima di subire la graduale romanizzazione dal III secolo in poi.
La “presenza” egizia in questi luoghi è sostanzialmente dovuta a due fattori: il periodo Orientalizzante (VIII-VI sec a.C.) e la diffusione dei culti misterici nell’impero romano. Nel primo caso, si ebbe una esportazione in tutto il Mediterraneo di oggetti egiziani, assiri, ciprioti, siriani, fenici e dell’Asia Minore. Questo materiale divenne uno status symbol nelle tombe appartenenti all’élite delle società dell’epoca. Nelle sepolture etrusche o italiche, si trovano spesso scarabei, amuleti in faience, oggetti più ricchi in oro, argento, avorio o esotici come uova di struzzo. A volte, ci sono anche produzioni locali che imitano i motivi decorativi asiatici. Proprio nelle Marche, a Sirolo (An), nel 2008 è stata scoperta una tomba con oltre 650 oggetti provenienti dalla Valle del Nilo.
Per quanto riguarda il secondo fattore, invece, i Romani cominciarono a venerare divinità egizie attribuendo loro caratteristiche di quelle del pantheon classico, così, templi dedicati ad Iside e a Serapide sorsero in tutto l’impero.
Proprio a questo contesto appartengono i pochi reperti egizi o egittizzanti conservati presso il museo, in una vetrina al secondo piano nell’area dedicata alla religione dei Romani. Sono solo 13 pezzi da scavi nella zona e da acquisti e donazioni ottocentesche. Si tratta di tre bronzetti votivi di Iside-Fortuna e uno di Mercurio-Thot, un pendaglio con testa femminile bifronte da Alessandria e un altro in faience con Bastet (XXII-XXIII din.), un vasetto di alabastro, un frammento di vetro policromo, un erma di Zeus-Serapide (fine II-III sec. d.C.) e quattro bei ushabti in faience (nella foto), tra cui il più grande, mancante della parte inferiore, apparteneva a un certo Pekher-Ptah della XXVI dinastia.