Qualche mese fa, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo, sono comparsi titoli sensazionalistici sulla famigerata iscrizione di Beyköy, un lungo testo in geroglifico anatolico che avrebbe parlato di Popoli del Mare e della fine dell’Età del Bronzo. Perché, nonostante il fenomeno interessi anche l’Egitto, non ho riportato la notizia sul blog? Perché era una bufala. L’intera vicenda mi è subito apparsa sospetta, viste la mia esperienza con le fake news egittologiche e la familiarità con l’argomento che avevo scelto per la tesi di triennale.
Qualche mese fa, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo sono comparsi titoli sensazionalistici riguardo una presunta scoperta che avrebbe dovuto far luce su uno dei periodi più enigmatici dell’antichità: la fine dell’Età del Bronzo. La decifrazione di un testo di 3200 anni dall’odierna Turchia, infatti, sembrava poter spiegare definitivamente le cause del collasso del sistema politico-economico palaziale. Ma, già prima della pubblicazione completa della traduzione, era sorto più di qualche dubbio tra gli esperti.
I Popoli del Mare e la fine di un’epoca
Intorno al 1200 a.C., le tre superpotenze dell’epoca – Micene, Hatti ed Egitto – subirono un netto declino. Con il cosiddetto Medioevo ellenico, evidenti tracce di distruzione in alcuni centri della Grecia attestarono la fine della civiltà micenea; il grande impero ittita si frazionò in una serie di entità più piccole chiamate Stati neo-ittiti; l’Egitto – tra la fine della XIX e l’inizio della XX dinastia – riuscì a fronteggiare continui attacchi da nord, ma iniziò gradualmente a perdere il controllo sulla terra di Canaan. Questa crisi globale viene imputata, forse in modo troppo semplicistico, ai cosiddetti Popoli del Mare, coalizione eterogenea di genti che avrebbe attaccato le principali città costiere del Mediterraneo Orientale.
Tali popolazioni – note nelle fonti egizie con i nomi di Shardana, Shekelesh, Peleset, Tjekker, Lukka, Danuna, Eqwesh, Tursha, Weshwesh – si mossero probabilmente dall’area dell’Egeo per compiere incursioni in Anatolia, Siria, Palestina e Cipro. La loro avanzata si fermò solo in Egitto dove, almeno secondo i documenti ufficiali faraonici, furono definitivamente sconfitte e ricacciate indietro. Perfino il grande Ramesse II (1279-1213), così come il successore Merenptah (1213-1203), si trovò a fronteggiare queste scorribande; ma la minaccia più grave deve essersi verificata sotto Ramesse III (1185-1153) che dedicò ben il 36% delle scene militari nel suo tempio funerario a Medinet Habu (Tebe Ovest) alle campagne contro la confederazione dei “barbari settentrionali”.
L’iscrizione scomparsa
In questo apparente scenario di caos e devastazione, una parte da protagonista sarebbe stata ricoperta dal fantomatico Kupanta-Kurunta, Gran Re di Mira (uno degli Stati del Tardo Bronzo dell’Anatolia occidentale), in grado d’inanellare una serie di conquiste militari lungo la costa del Mediterraneo Orientale proprio intorno al 1190-1180 a.C. La sua invincibile flotta, comandata dal principe Muksus di Troia, avrebbe attaccato perfino la biblica Ascalona, nell’attuale Israele, al confine con la zona d’influenza egizia.
Questa e altre gesta erano narrate da un’iscrizione in luvio geroglifico che purtroppo non esiste più, o meglio, come spieghiamo più avanti, verosimilmente non è mai esistita. Il “documento” in questione era inciso su un fregio di calcare, lungo 29 metri e alto 35 cm, scoperto nel 1878 a Beyköy, 34 km a nord dalla città turca di Afyonkarahisar. Il testo, però, è stato tradotto e pubblicato solo lo scorso dicembre dal geoarcheologo svizzero Eberhard Zangger e dal linguista olandese Fred Woudhuizen.
Le motivazioni di un simile ritardo stanno nella storia stessa del reperto, più intricata e avventurosa del racconto che avrebbe veicolato. Il blocco originario, infatti, sarebbe sparito subito, utilizzato dagli abitanti del luogo come materiale edile per le fondamenta di una moschea; ma, poco prima, il francese Georges Perrot sarebbe riuscito a disegnarne il contenuto. Da questo momento, comincia una lunga serie di trascrizioni degli schizzi originari, a loro volta perduti, che arrivano fino alla controversa figura di James Mellaart, archeologo britannico noto più per gli scandali in cui è stato coinvolto che per le sue scoperte.
Mellaart avrebbe copiato il testo di Beyköy a Istanbul nel 1979 dagli appunti dello studioso locale Ulug Bahadir Alkim, per poi tentare, fino all’ultimo giorno della sua vita, la decifrazione di quella scrittura che però non conosceva. Dopo la morte avvenuta nel 2012, lasciò addirittura scritto nel suo testamento che fosse cercato qualcuno in grado di continuare il suo lavoro.
La pubblicazione del testo e il clamore mediatico
Per il difficile compito, la scelta del figlio di Mellaart è ricaduta su Eberhard Zangger, presidente della fondazione Luwian Studies e autore di teorie altrettanto controverse sull’interpretazione di Troia come Atlantide e sulle responsabilità dei Luvi nel collasso delle civiltà dell’Età del Bronzo. Non a caso, la traduzione di Woudhuizen, già dalle prime anticipazioni, sembrava confermare il ruolo attivo di una coalizione di Stati dell’Asia Minore nell’invasione dei Popoli del Mare. Tutto molto sospetto. Nonostante ciò, la notizia è diventata subito virale ancor prima della pubblicazione ufficiale sull’ultimo numero di Talanta – Proceedings of the Dutch Archaeological and Historical Society.
I primi dubbi sono poi stati confermati dalle informazioni fornite da Recai Tekoglu, professore dell’Università di Smirne e uno dei pochi studiosi al mondo in grado di tradurre il geroglifico anatolico: Perrot si recò l’ultima volta nell’Impero ottomano nel 1871 e quindi non può essere stato presente al momento della presunta scoperta (1878); la moschea di Beyköy risalirebbe addirittura a quasi 50 anni prima; inoltre, dal punto di vista strettamente linguistico, il testo presenta numerosissimi complementi fonetici (segni che esprimono un suono), caratteristica della scrittura del I millennio a.C. e non di quella del II che, invece, si basa su un sistema di logogrammi (segni che esprimono un’intera parola).
Gli appunti di Mellaart contenenti informazioni storiche e ricostruzioni testuali
Un falsario seriale
A questi dati, già da soli sufficienti a invalidare la notizia, si aggiunge la fama negativa del vero protagonista della faccenda: James Mellaart. L’archeologo inglese scoprì l’importante sito neolitico di Çatalhöyük nel 1958, ma pochi anni dopo fu bandito dalla Turchia con l’accusa di traffico illegale di antichità.
In più, tra la comunità scientifica, già da tempo era noto soprattutto per aver parlato di una serie di pitture parietali la cui esistenza non è mai stata provata, come scene con sconosciuti riti religiosi, la più antica rappresentazione di un’eruzione vulcanica e la prima mappa stradale. Gravi sospetti che sono stati confermati poche settimane fa, quando Eberhard Zangger in persona ha visitato il suo appartamento rimanendone
sconcertato.
Al giornalista Owen Jarus di Live Science, infatti, Zangger ha riferito di essersi recato a Londra in cerca di foto e note originali sull’iscrizione appena pubblicata e di aver scoperto, invece, un vero e proprio laboratorio domestico di falsi. Decine di lastre di scisto erano state utilizzate per provare i disegni spacciati come ritrovamenti di Çatalhöyük, mentre un corposo dossier era servito a confezionare l’iscrizione di Beyköy: informazioni storiche, liste di nomi di personaggi, popoli e luoghi, appunti di grammatica testimoniano il meticoloso lavoro di Mellaart che, a quanto pare, mentiva anche quando affermava di non conoscere il luvio geroglifico. Per oltre 50 anni, quindi, si sarebbe reiterata la creazione di falsi documenti atti a rafforzare teorie fantasiose mai supportate da
dati oggettivi.