Mummie: è giusto esporre resti umani nei musei?

Mummie: è giusto esporre resti umani nei musei? - Djed Medu

Ieri è stata inaugurata “Ancient Lives: new discoveries”, mostra del British Museum incentrata sulle nuove analisi scientifiche su otto tra le centinaia di mummie conservate nel museo. La visibilità che ha avuto l’evento ha riacceso una disputa ideologica che spesso nasce in simili circostanze: è giusto esporre resti umani nei musei? Si tratta del legittimo risultato di ricerche archeologiche o dell’irrispettosa profanazione di cadaveri?  Molti sono stati gli articoli scritti sull’argomento e anch’io ho deciso di cogliere l’occasione per riportare la mia opinione. Naturalmente mi concentrerò sul mondo dell’egittologia che è quello più vicino alla mia formazione, anche se il discorso potrebbe essere allargato alle migliaia di collezioni archeologiche, antropologiche e di storia della medicina del mondo.

Prima di tutto, però, va fatta una considerazione generale sul rapporto che la società occidentale ha avuto e tuttora ha con la morte. Nel corso della storia, si è quasi sempre cercato di non mescolare l’ambito dei viventi con quello dei defunti creando appositi luoghi, fuori dai contesti abitativi, dove deporre le salme. Il motivo di fondo è semplice, cioè evitare che la decomposizione dei corpi possa diffondere malattie contagiose o avvelenare le fonti d’acqua e di cibo. Esistono delle eccezioni, come le inumazioni “casalinghe” nella Gerico neolitica o come nel caso dei Dani (le cosiddette “tribù delle mummie”), gruppi primitivi della Papua Nuova Guinea che ancora oggi vivono con i corpi imbalsamati dei loro antenati; ma, in generale, le tombe sono sempre extra moenia. Tale consuetudine è stata ufficializzata anche da celebri provvedimenti legislativi, tra cui spiccano la Tavola X delle duodecim tabularum leges del 451-450 a.C. («Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito») e l’Editto di Saint Cloud emanato da Napoleone Bonaparte nel 1804 (come non ricordare “I Sepolcri” di Ugo Foscolo). Oltre alle basilari motivazioni igienico-sanitarie, ci sono di mezzo anche i retaggi culturali e religiosi che hanno plasmato il nostro rapporto con la morte. Il Cristianesimo predica la sacralità del corpo umano come dono di Dio; per questo la cremazione è mal vista o addirittura vietata in previsione della resurrezione finale dopo il Giudizio Universale. Ma, anche nel Cattolicesimo, esistono casi a parte come nel Convento dei Frati Minori Cappuccini di Via Veneto a Roma in cui le ossa dei monaci sono state utilizzate per secoli come semplice materiale da costruzione per realizzare decorazioni architettoniche (vedi foto in basso). Qui, il corpo era considerato un semplice involucro dell’anima che, dopo il trapasso, perde ogni importanza.

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Source: turismoroma.it/cosa-fare/il-convento-dei-frati-minori-cappuccini-di-via-veneto

Se avessero conosciuto il loro destino, molti Egizi avrebbero preferito la stessa sorte dei frati romani e diventare un lampadario. Infatti, le mummie sono sempre state usate come combustibile, alla stregua di pezzi di legno; inoltre, tra XVII e XVIII sec., venivano polverizzate e spacciate per rimedi medicamentosi da ingoiare (quindi non lamentatevi quando trovate che alcune pillole siano amare!). Fin dall’antichità, invece, i tombaroli le distruggono o le bruciano alla ricerca dei preziosi amuleti in esse nascoste (qui un esempio nella cachette recentemente scoperta). Il vero interesse dell’Europa per questi “reperti esotici”, però, andò di pari passo con la nascita dell’egittologia tra ‘800 e primi del ‘900. Frammenti di corpi mummificati erano inclusi tra i mirabilia delle wunderkammern già nel XVI secolo, ma è solo con l’istituzione delle prime grandi collezioni egittologiche che la gente scoprì la morbosa passione per i cadaveri del Nilo. Musei di tutto il mondo cominciarono a fare a gara per accaparrarsi sarcofagi e canopi (possibilmente pieni), mentre nella gotica Inghilterra vittoriana si diffuse una moda che coinvolgeva un vasto pubblico di curiosi: lo sbendaggio delle mummie. Alla presenza di centinaia di persone, studiosi toglievano mano mano ogni involucro dell’imbalsamazione, dalla copertura in cartonnage fino alle bende di lino, lasciando il corpo “nudo” (nella foto in basso, l’egittologa Margaret Murray sbenda la mummia del sacerdote Khnum-Nakht nel Manchester Museum davanti a 500 spettatori).

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Source: pasthorizonspr.com/index.php/archives/12/2012/unwrapping-the-mummy-performance-and-science

I “Mummy Unwrapping Parties” e la “Tutmania” esplosa dopo la scoperta di Howard Carter riflettevano il gusto dell’orrido e l’attrazione verso la morte che, purtroppo ancora oggi, spesso caratterizza chi entra in un museo e si trova di fronte a una teca che contiene resti umani; esattamente come chi guarda un horror o segue con attenzione ogni aggiornamento di cronaca nera. La cultura popolare, infarcita di romanzi, film e leggende metropolitane, ha insinuato nel grande pubblico un pregiudizio difficile da estirpare, cioè che la cultura egizia fosse ossessionata dall’aldilà. Non c’è niente di più sbagliato e, per rendersene conto, basterebbe leggere una delle tante poesie d’amore tradotte o dare un’occhiata al “Papiro erotico” di Torino. Il fatto che, in Egitto, la maggior parte dei contesti archeologici sia di tipo templare o funerario è spiegabile con conformazione geografica del Paese. L’esiguità delle terre fertili ha fatto sì che le stesse aree siano state sfruttate per millenni per gli insediamenti abitativi, con la conseguente cancellazione di quelli più antichi. Quindi, gli Egizi non erano perennemente incupiti in attesa di stirare le cuoia, ma mangiavano, si ubriacavano, cantavano, facevano l’amore come tutti gli altri.

Source: telegraph.co.uk
Source: telegraph.co.uk

Dopo queste considerazioni sembrerebbe tutt’altro che etico esporre al pubblico i corpi di persone distolte dal loro riposo eterno e trasformate in curiosi oggetti da ammirare. Ma è proprio qui che si inserisce il ruolo del professionista. Archeologi, antropologi, restauratori, curatori di musei devono ridare dignità a questi uomini e donne non trattandoli come gli altri reperti. L’oggetto deve tornare soggetto. Non basta mettere la mummia in vetrina accompagnandola con una semplice targhetta che ne specifichi la datazione, ma va ricreato tutto il contesto cercando di estrapolare ogni dato possibile che possa farci conoscere la vita e non solo la morte. In realtà, rileggendo ciò che ho appena scritto, mi rendo conto che questo discorso andrebbe applicato su ogni singolo vaso, amuleto o sandalo, ma io riserverei una particolare cura sui nostri avi. In questo ci aiuta la tecnologia. Senza dover per forza togliere le bende, raggi X, TAC e altri metodi non invasivi oggi permettono di capire cosa mangiasse il “paziente”, che tipo di attività lavorativa facesse, di che mali soffrisse e la causa del decesso. Informazioni non solo utili nel particolare ma che, messe tutte insieme, possono riscrivere i libri di storia. Bisogna ricordare che, secondo la religione egizia, l’integrità del corpo era fondamentale per sperare in una vita ultraterrena e, infatti, esisteva un’infinità di formule funerarie per scongiurare problemi al cadavere. Quindi, in un certo senso, la cura dei moderni studiosi nel conservare le salme potrebbe far comodo agli spiriti che si trovano nella Duat.

Così, secondo me, mostre come quella del British, incentrate sulle storie più che sui reperti, non ledono la dignità dei protagonisti e, anzi, possono “educare” il pubblico. Certo, ci sarà sempre chi andrà a vedere la mummia con in testa la maledizione di Tutankhamon o la musichetta di John Williams, ma tutti gli altri potranno considerare con più rispetto persone che una volta vivevano e che, in questo modo, potranno ottenere l’immortalità (almeno nella memoria) tanto agognata.

Questa è solo la mia opinione, ma mi piacerebbe che anche voi riportaste la vostra commentando l’articolo.