48 anni fa (22 settembre 1968), René Maheu, l’allora Direttore Generale dell’UNESCO, dichiarava ufficialmente conclusa una delle più grandi imprese ingegneristiche della storia, una vera e propria corsa contro il tempo per salvare un monumento patrimonio dell’umanità. Dopo quattro anni di duro lavoro, oltre 2000 uomini venuti da tutto il mondo erano riusciti a strappare dalla minacciosa avanzata delle acque del Nilo i templi di Abu Simbel.
Il salvataggio del complesso ramesside è il simbolo dell’iniziativa di 113 Paesi che, rispondendo all’appello lanciato dall’UNESCO con l’invio di denaro, tecnologie e professionalità di ogni tipo, si adoperarono alla protezione dei siti archeologici del Sud dell’Egitto e del Nord del Sudan che rischiavano di essere inghiottiti dal Lago Nasser. Infatti, con la costruzione della Grande Diga di Assuan, iniziata nel 1960, si sarebbe creato un enorme bacino idrico artificiale della superficie di circa 6000 km² in un’area ricchissima di testimonianze storiche. La campagna internazionale durò 20 anni, fino al 10 marzo 1980, e vide lo spostamento in punti più sicuri di 22 monumenti, come i templi di File che furono ricollocati sulla più alta isola di Agilkia. Tutto ciò che non si sarebbe potuto salvare fu documentato grazie a decine di missioni archeologiche, compresa quella italiana (Università di Torino, Milano e Roma “La Sapienza”) che, sotto la direzione di Sergio Donadoni, scavò nei siti di Demhit, Kalabsha, Kubban, Ikhmindi, Korosko-Qasr Ibrim, Tamit e Sonqi Tino. Il governo egiziano, poi, in segno di riconoscimento per l’aiuto ricevuto, donò interi edifici alle nazioni che si erano distinte nelle operazioni di salvataggio: il Tempio di Debod alla Spagna (Madrid), di Dendur agli USA (Metropolitan Museum di New York), di Taffa all’Olanda (Rijksmuseum van Oudheden a Leida), la porta del Tempio di Kalabsha alla Germania (Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino) e il santuario rupestre di Ellesija all’Italia (Museo Egizio di Torino). Il nostro Paese, in particolare, ebbe un ruolo di primaria importanza proprio ad Abu Simbel grazie all’avanzata perizia ingegneristica e, soprattutto, alla maestria in un mestiere secolare come quello dei cavatori di marmo.
I due templi si trovano 280 km a sud-ovest di Assuan, in pieno deserto. Fatti scavare nella roccia da Ramesse II (1279-1212) nel 26° anno di regno, servivano a celebrare la divinizzazione in vita del faraone e di Nefertari. Il Tempio Maggiore, con la facciata occupata dai quattro colossi alti 20 metri, era dedicato a Ptah, Amon-Ra, Ramesse II e Ra-Harakti; il Tempio Minore, poco più a nord, era consacrato ad Hathor e alla regina. Le dimensioni degli edifici e l’asprezza del luogo in cui sono ubicati rendono evidente come sia stato arduo realizzarli; difficoltà che incontrò 3000 anni dopo (1 agosto 1817) anche Giovan Battista Belzoni che fu il primo a riuscire a liberare il Tempio Maggiore dalla sabbia e a trovarne l’entrata; così, proseguendo fino al secolo scorso, la campagna dell’UNESCO, costata quasi 42 milioni di dollari, può essere considerata la terza grande impresa che ha interessato il complesso. Egittologi, epigrafisti, fotografi e disegnatori documentarono ogni singolo centimetro delle strutture per poi lasciar campo libero a ingegneri, architetti e operai in un gigantesco puzzle da 1041 tessere di 20 tonnellate! I templi, infatti, andavano letteralmente fatti a pezzi (alcuni dei quali raggiungevano il peso di 33 T) e rimontati in un punto che, 208 metri indietro e 65/67 più in alto, non sarebbe stato raggiunto dall’acqua. Durante le operazioni di smantellamento, terminate a febbraio/marzo 1966 (immagine in alto), fu costruito uno sbarramento che rallentasse l’avanzamento del lago. Ogni blocco numerato fu ricollocato al suo esatto posto tanto da mantenere l’allineamento che permette ancora il ripetersi, due volte l’anno (22 febbraio e 22 ottobre), seppur con uno sfasamento di un paio di giorni, del cosiddetto “Miracolo del Sole”, il fenomeno durante il quale, alle prime luci dell’alba, i raggi del sole attraversano tutto il Tempio Maggiore e illuminano tre delle quattro statue del sancta sanctorum. Il tutto, poi, fu ricoperto da due gigantesche cupole in cemento armato, dalla campata di 50 e 24 m, e dalla montagna artificiale che ricrea il paesaggio originario.
La fase più delicata dell’intero progetto fu probabilmente il sezionamento dei templi, soprattutto delle superfici a vista, che fu affidato agli Italiani: decine di esperti cavatori da Carrara e da Mazzano (BS) diressero gli operai egiziani in questo delicato compito. I tagli, infatti, dovevano essere il meno larghi possibile raggiungendo al massimo i 15-20 mm per le porzioni interne e addirittura 8 per le parti visibili. Per raggiungere una simile precisione, si poteva utilizzare esclusivamente la sega a mano; un lavoro a dir poco infernale se si considerano anche le temperature che possono superare i 45° (per questo, spesso si cominciava di notte), la sabbia che ostruisce le vie respiratorie e il vento tagliente del deserto che sferza la pelle. I reporter dell’epoca si stupivano del fatto che gli Italiani, al contrario degli operai locali, non usassero quasi mai occhiali protettivi e mascherina per “sentire meglio” la pietra. E pensare che molti di loro non avevano mai lasciato il loro paesino prima di allora e, di certo, non erano abituati a un clima del genere. Condizioni ambientali che, invece, conosceva benissimo Giovanni Romanin, uno dei protagonisti dell’impresa e alla cui memoria è dovuta la decisione di scrivere questo articolo. Perché ogni grande evento della storia è composto da migliaia di piccole esperienze intrecciate l’una all’altra, assemblate proprio come i blocchi dei templi ricostruiti, e quella di Giovanni si lega indissolubilmente ad Abu Simbel.
Giovanni, infatti, è stato uno di quei cavatori chiamati in Egitto dall’Italia dove, purtroppo, tornò privo di vita ancor prima del completamento dei lavori. Era nato il 4 maggio 1909 a Forni Avoltri (UD), un piccolo centro della Carnia la cui economia è da sempre basata sulle miniere e le cave alpine. Non a caso, Giovanni e il fratello Virginio vivevano proprio dell’estrazione della pietra locale e, per la loro esperienza, negli anni ’30 furono chiamati a lavorare in Etiopia. Ad Addis Abeba rimasero 13 anni durante i quali provarono le difficili condizioni climatiche che avrebbero ritrovato nel 1964 quando, dopo essere ritornati a casa, furono contattati dall’Impre.Gi.Lo (Impresit-Girola-Lodigiani), società specializzata in grande opere che, insieme ad altre 4 aziende, era stata incaricata dall’UNESCO per il trasloco. I due fratelli erano perfetti per quel ruolo grazie alle solide competenze professionali e al periodo passato in Africa; in particolare, Giovanni doveva amare veramente ciò che faceva perché, nelle foto, dove è riconoscibile dall’immancabile berretto nero, appare sempre sorridente (vedi in basso). Purtroppo, però, è impossibile trovarlo sorridente anche nelle foto di gruppo ufficiali scattate durante la cerimonia di chiusura del 22 settembre 1968: era spirato due anni prima senza la soddisfazione di veder coronati i suoi sforzi. Il 16 luglio 1964, infatti, fu colpito da un infarto e a nulla servì la corsa verso un ospedale di Assuan dove, unica vittima dell’intero corso del cantiere, arrivò già morto. Ma, più che ricordarlo per questo triste primato, a Giovanni Romanin vanno tributati tutti gli onori del caso per aver contribuito, perfino con la sua vita, al salvataggio di una delle meraviglie più rappresentative dell’antico Egitto.
Vorrei ringraziare di cuore la figlia Virginia che mi ha raccontato la storia del padre, purtroppo perso da bambina; una storia che merita di essere conosciuta da tutti e ricordata ogni qual volta ci si trovi di fronte a una foto dei quattro colossi di Ramesse.