Lo scorso aprile aveva compiuto il suo (forse) ultimo viaggio, dal Museo Egizio del Cairo al Museo Nazionale della Civiltà Egiziana di Fustat, partecipando trionfalmente alla Pharaoh’s Golden Parade. Ma ancor prima di lasciare la sua sede espositiva originaria, la mummia di Amenofi I era stata sottoposta a una TAC rivelando diverse informazioni sullo stato di salute del faraone e soprattutto sulle tecniche di utilizzate per mummificare il suo cadavere.
I risultati degli esami, eseguiti nel 2019 in un laboratorio mobile nel giardino del Museo, sono stati pubblicati proprio oggi sulla rivista “Frontiers in Medicine” in un articolo della professoressa di radiologia della Cairo University, Sahar Saleem, e di Zahi Hawass.
Amenofi I (1525-1504 a.C.) è stato il secondo faraone della XVIII dinastia, in seguito divinizzato insieme alla madre Ahmose-Nefertari. La sua mummia fu scoperta nel 1881 nella famosa cachette di Deir el-Bahari, dove era stata nascosta dai sacerdoti di Amon durante la XXI dinastia. Le tombe dei faraoni avevano infatti subito furti e danneggiamenti alla fine del Nuovo Regno e così il clero cercò di salvare almeno i corpi dei sovrani dalle mani degli antichi tombaroli (e, contestualmente, di approfittare di quanto rimasto del corredo).
Il corpo di Amenofi I reca le tracce sia dell’azione dei ladri che della seconda imbalsamazione, effettuata 300 anni dopo la prima per riparare i loro danni. Tuttavia, trattandosi di uno dei pochissimi casi in cui la mummia non è stata sbendata dopo il ritrovamento, per vederle è stato necessario sottoporla a esami autoptici non distruttivi come i raggi X e, ora, la TAC. Quest’ultimo esame ha corretto i dati acquisiti dalle vecchie radiografie (1932 e 1967), posizionando l’età di morte di Amenofi I intorno ai 35 anni sulla base della chiusura delle epifisi delle ossa lunghe e della morfologia della sinfisi pubica. Il re era alto circa 168,5 cm e, a parte una frattura rimarginata al bacino, non mostra evidenti segni di malattie o traumi; quindi al momento è impossibile stabilirne la causa di morte.
Sotto la maschera funeraria in legno e cartonnage, le ghirlande di fiori e un primo sudario di lino, è emersa una commistione tra vecchio e nuovo bendaggio. A quello originale di XVIII dinastia dovrebbe appartenere la fasciatura individuale degli arti; in particolare, le braccia dovevano essere incrociate sul petto, come indicato dalla posizione trasversale dell’avambraccio destro, seppur la mano sia dislocata. Il braccio sinistro, invece, risulta staccato e quindi avvolto lungo fianco e fissato con un perno durante il III Periodo Intermedio. Anche la testa è stata riattaccata al corpo con una benda imbevuta di resina. Infine, una grande cavità, scavata nell’addome per arrivare a preziosi oggetti protettivi, è stata colmata con del lino e riempita anche con le due dita mancanti della mano sinistra e due amuleti. Tornando alla prima mummificazione, sono state evidenziate un’eviscerazione effettuata attraverso un taglio verticale sul fianco sinistro, la presenza del cuore con un amuleto, l’uso di tessuto sciolto e impacchi per occupare i vuoti creatisi e la mancata asportazione del cervello. Il pene, bendato a parte, era circonciso.
Se, come detto, gli stessi sacerdoti non si facevano troppi problemi nell’appropriarsi dei preziosi dei faraoni, in questo caso si nota almeno un certo rispetto. Tra le bende sono infatti stati individuati 30 tra amuleti e gioielli, alcuni dei quali probabilmente in oro. Oltre a udjat, scarabei, cuori ib, doppie ali, scettri di papiro uadj in faience, terracotta, pietra e conchiglia, la TAC ha rivelato la presenza di una cintura con 34 perline d’oro tenute da fili metallici sulla parte posteriore della vita. In sostanza, qualcosa per l’aldilà è stato lasciato.
L’articolo originale: https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fmed.2021.778498/full