Di solito, nella rubrica “blooper egittologici” recensisco film che parlano, in un modo o nell’altro, dell’antico Egitto. Questa volta, però, farò uno strappo alla regola e mi occuperò di una miniserie TV attesa da molti sia per l’argomento che tratta sia per la campagna mediatica che l’ha caratterizzata: “TUT”. Tutankhamon è, nell’immaginario comune, il faraone più rappresentativo e, a partire dalla scoperta della sua tomba nel 1922, ha influenzato l’arte, la moda, la letteratura, il cinema e, in generale, la cultura pop; così, c’era da aspettarsi che, prima o poi, diventasse il protagonista di un “historical drama”. Ci ha pensato l’emittente statunitense Spike TV che il 19-20-21 luglio ha trasmesso in prima serata le tre puntate da 90 minuti ottenendo lo share più alto dal 2008 e un aumento degli ascolti complessivi del 123%. Il motivo di tutto questo successo? Solo esclusivamente il soggetto che venderebbe proposto in qualunque salsa. La trama è noiosa, gli attori sono monoespressivi (a parte il premio oscar Ben Kingsley che, rimanendo in tema, nell’ultimo anno ha ricoperto anche i ruoli dell’anziano ebreo Nun in “Exodus: Gods and Kings” e di Merenkahre in “Notte al museo – Il segreto del faraone”), la ricostruzione storica, come vedremo, completamente sballata. Va bene che la fiction, come dice la parola stessa, è finzione, ma in “Tut” si è stravolta la realtà, a partire dal “faraone bambino” che è diventato un improbabile eroe che ama il suo popolo e che, combattendo in prima persona, porta il suo regno alla gloria contro nemici interni ed esterni. E dire che di spazio per far cavalcare la fantasia ce n’era eccome con tutti i punti ancora oscuri della fine della XVIII dinastia; invece, gli sceneggiatori sono andati a mettere mano su dati storicamente acquisiti. Viene raccontata, dall’ascesa al trono fino alla morte, la breve vita di Tutankhamon (Avan Jogia che curiosamente somiglia all’attore che ha interpretato Ra in “Stargate”), dapprima re fantoccio manovrato da potenti personalità della corte, poi risoluto a prendere di polso la situazione e cambiare la politica dell’Egitto. Il tutto si può riassumere con 3 ore e mezza di intrighi di palazzo, intervallati da qualche scena di combattimento: il Sommo sacerdote Amun trama, il visir Ay (Kingsley) trama, suo figlio Nakht trama, la regina Ankhesenamon trama, il generale Horemheb trama; insomma, tutti tramano alle spalle del giovane sovrano per acquisire più potere. Questo è forse l’unico aspetto plausibile della narrazione, giustificato proprio dal caos post amarniano. Per il resto, quasi tutto è inventato e, qui di seguito, vi spiegherò perché passo dopo passo. ATTENZIONE SPOILER!!!
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Parte I: “Power”
Siamo nel 1332 a.C. a Tebe e un morente Akhenaton, avvelenato da un certo Parennefer, lascia il potere al figlio di 9 anni Tutankhamon, nonostante egli si rifiuti di giustiziare con le sue mani il figlio dell’attentatore, Ka, che diventerà suo migliore amico. Il nuovo faraone sposa la sorella Ankhesenamun e vive l’infanzia e l’adolescenza segregato nel palazzo.
COSA C’È DI VERO? La successione di Akhenaton e i genitori di Tutankhamon sono tra gli argomenti più dibattuti dagli egittologi perché, in entrambi i casi, non si hanno ancora dati certi. Infatti, il ritorno agli antichi culti e la damnatio memoriae voluti (e usurpati allo stesso Tut che fece scolpire la “Stele della restaurazione” sul III pilone del Tempio di Karnak) da Horemheb hanno colpito il periodo che va dall’epoca amarniana al regno di Ay, provocando una lacuna difficilmente colmabile che, questa volta legittimamente, lascerebbe più spazio alla fiction. Nella serie, Tutankhamon è figlio del “faraone eretico” e suo diretto successore, anche se tra i due dovrebbe esserci stato almeno un altro/a regnante. Il doppio genere è d’obbligo perché, dopo tanti anni in cui si è pensato che l’erede fosse Smenkhara, da un po’ di tempo, grazie a una scoperta del 2012 [Van der Perre A., Nefertiti’s last documented reference (for now), in Seyfried F. (ed.), In the light of Amarna: One hundred years of the Nefertiti discovery, Berlin 2013, p.195-197], si è fatta strada l’ipotesi secondo cui sarebbe stata la regina Nefertiti a salire al trono.
Per quanto riguarda il padre di Tut, invece, si è parlato di Amenofi III, Akhenaton o Smenkhara. Dallo studio del DNA voluto nel 2010 da Zahi Hawass, i genitori risulterebbero il defunto ritrovato nella KV55 (Amenofi IV secondo l’ex Segretatario dello SCA, Smenkhara secondo altri) e la cosiddetta “Younger Lady” della KV35, ma il condizionale è d’obbligo perché molti genetisti hanno contestato tali risultati criticando l’uso di tecniche inappropriate.
La vera cantonata della prima parte sta nella scelta di ambientare da subito la storia a Tebe. È stranoto che Akhenaton, tra il 4° e il 6° anno di regno, trasferì la corte ad Akhetaton, Tell el-Amarna, dove risiedette anche lo stesso Tutankhamon quando si chiamava ancora Tutankhaton (“Immagine vivente di Aton”) e quando sposò la sorellastra Ankhesenpaaton, poi diventata Ankhesenamon. Solo in un secondo momento, la capitale tornò a essere l’odierna Luxor, nell’ambito del programma di restaurazione post-amarniano. Per il resto, non sappiamo come sia morto Akhenaton, anche se la mummia della KV55 non presenta tracce di avvelenamento e Parennefer era Gran maggiordomo e consigliere personale del faraone.
Passano 10 anni e Tut diventa un bel giovane atletico che si allena nel combattimento con l’amico Ka (che, però, se la fa con Ankhesenamun). Quest’attività è svolta in segreto perché il sovrano non può uscire dalle sue stanze, non si è mai mostrato al popolo ed è tenuto all’oscuro di tutte le decisioni di Stato prese di fatto dal visir Ay e dal capo delle forze armate Horemheb (Nonso Anozie, corpulento attore di colore). Così, disgustato dalle beghe di palazzo, spesso si traveste e scappa tra la gente comune (cliché trito e ritrito nel cinema). Durante una delle sue fughe, incontra Suhad, splendida ragazza mezza mitanni di cui si innamora, e Lagus, soldato che gli salva la vita e che diventerà il suo sottoposto più fedele. Gli scampoli di vera vita vissuta tra le strade di Tebe svegliano Tutankhamon che decide di prendere parte attivamente al governo dell’Egitto e di attuare profonde riforme democratiche togliendo potere al clero e all’esercito e abbassando i tributi da pagare ai templi.
Tralasciando il nome per niente egiziano di Lagus (che, invece, era un ufficiale di Filippo II di Macedonia e padre di Tolomeo I Sotere), le perplessità toccano soprattutto l’aspetto di Tut. Le ultime analisi sulla sua mummia hanno mostrato un individuo tutt’altro che avvenente e dal fisico minato da diversi acciacchi. Il re aveva il labbro leggermente leporino, la scoliosi e, soprattutto, una dolorosa osteonecrosi al secondo dito del piede sinistro che lo obbligava a zoppicare sorreggendosi con un bastone. Non a caso, nella KV62 sono stati trovati ben 130 bastoni da passeggio effettivamente usati. Altro che correre, saltare e tirare di spada! Ma, d’altronde, un protagonista così conciato avrebbe avuto scarso appeal sul pubblico. A causa della giovane età e del cattivo stato di salute, è probabile che Tutankhamon sia rimasto un faraone effimero fino alla sua morte.
Poi, lungi da me entrare nella solita disputa politically correct sull’utilizzo di attori bianchi o neri per personaggi egiziani, ma perché rappresentare il solo Horemheb di colore? La mummia non è stata ancora individuata e le sue raffigurazioni, seppur convenzionali, non si distaccano dai suoi predecessori per la pigmentazione della pelle. Allora perché scegliere un interprete di origini nigeriane?
Tra le prime iniziative che Tutankhamon vuole intraprendere di persona, c’è una campagna militare contro i Mitanni che premono minacciosi al confine nord-orientale. Tushratta, forte di un esercito più numeroso e convinto della debolezza del faraone, ha intenzione d’invadere la Valle del Nilo, così tende una trappola aspettando gli Egiziani nel regno di Amurru, l’area tra le attuali Siria e Libano da dove proviene Suhad. Il giovane re si rivela un abile stratega e un gran combattente e, ignorando i piani di Horemheb, riesce a mettere in fuga i nemici. Durante la battaglia, però, Lagus viene catturato e lo stesso Tut è ferito gravemente a un fianco cadendo moribondo. Horemheb lo trova, ma decide di abbandonarlo lì per tornare a Tebe come unico vincitore e nuovo sovrano.
La descrizione del reale stato fisico del re basterebbe ampiamente a mettere in dubbio la sua partecipazione a una guerra, soprattutto nel suo ultimo anno di vita. Inoltre, nonostante la propaganda politica rappresentasse sempre il faraone come il terrore dei nemici, neanche il grande Ramesse II avrà mai messo piede su un campo di battaglia. Sarebbe stato tanto inutile quanto rischioso. In ogni caso, alcune talatat provenienti dal tempio funerario di Tutankhamon – poi smantellato e usato come riempimento per il II pilone di Karnak da Horemheb – lo rappresentano su un carro da guerra contro nubiani e siriani, ma è probabile che il secondo caso si riferisca a una campagna dimostrativa nel nord della Palestina contro le incursioni ittite. E proprio qui casca l’asino perché il vero nemico egiziano del Tardo Bronzo era Khatti. Il regno di Mitanni aveva occupato il nord della Siria e della Mesopotamia durante il XVI e il XV secolo a.C., ma nel XIV era già in declino schiacciato in una morsa tra l’impero ittita a nord-ovest e il regno medio-assiro a est. Lo stesso Tushratta doveva essere già morto quando Tutankhamon salì al trono, ucciso durante una congiura ordita da Shuppiluliuma I di Khatti che aveva già invaso tutti i territori mitanni a ovest dell’Eufrate. Il regno di Mitanni, quindi, era tutt’altro che una minaccia per i confini egiziani; anzi, Tushratta aveva perfino chiesto aiuto, invano, ad Akhenaton contro le incursioni da nord.
Gli errori sul fronte ‘mitannico’ non si fermano qui. Se nel caso di Horemheb, la scelta di un attore di colore mi ha suscitato più di qualche perplessità, per Tushratta e suo figlio Tis’ada (il nome, in realtà, è quello di un re hurrita del XXI secolo a.C.), si sfiora il ridicolo. I due sono gli unici neri di un popolo così settentrionale che gli Egizi rappresentavano con folta barba e pelle chiara.
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Tuttavia, Tutankhamon non muore e viene trovato da Suhad (che c…aso) che lo nasconde e lo cura. Ripresosi, il faraone decide di andare a liberare Lagus e si fa portare dalla sua nuova fiamma alla fortezza segreta di Mitanni. Cosa può fare un ragazzino ferito, da solo, contro l’esercito che spaventa l’intero Egitto? Ovviamente riuscire nel suo intento. Così, i tre fuggono e corrono verso Tebe. Intanto, nella capitale si creano due fronti di alleanze per conquistare il potere: Horemheb-Ka e Amun-Ay, e, nonostante le subdole pressioni subite dal visir, Ankhesenamun sceglie di sposare il suo amante, anche perché aspetta un figlio da lui.
Eviterò di commentare la missione da Rambo di Tut nel cuore del territorio nemico e mi limiterò a spiegare il motivo della scelta della foto che ho posto all’inizio della recensione della puntata non per un mio spiccato animo romantico. La bella scena del bacio che si scambiano i due con le piramidi al tramonto sullo sfondo si svolge in Amurru. Ora guardate la cartina e tenete in mente che Giza era una delle necropoli di Menfi. Non aggiungo altro.
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Parte II: “Betrayal”
Mentre Ka sta per ricevere la corona blu (khepresh), Tutankhamon “si rialza dalla morte” e piomba nella sala del trono tra lo stupore dei presenti. Il faraone si riprende il suo posto e uccide con le proprie mani l’amico d’infanzia perché anche lui lo aveva abbandonato in fin di vita. Tornato al potere, Nebkheperura (è il praenomen) è sempre più autoritario e, dopo tutti i tradimenti subiti, si fida solo (e fa male) di Ay: il generale è imprigionato in attesa della condanna a morte, Amun contrastato apertamente con l’intenzione di eliminare i tributi al tempio e Ankhesenamun messa in disparte perché, dopo tre aborti (un figlio di Ka e due di Tut), non riesce a far nascere un erede. Al contrario, Suhad è sempre più influente e convince il re a chiedere un’alleanza ai Mitanni attraverso un matrimonio politico perché l’esercito egiziano è falcidiato da un’epidemia. Così, viene inviata Herit, cugina della regina, come sposa a Tushratta, ma, per tutta risposta, il nemico la rispedisce indietro impalata su un carro. Appare ovvio, ormai, che l’unica alternativa sia una guerra quasi impossibile da vincere, tanto che è richiamato alle armi anche Horemheb la cui pena capitale viene momentaneamente sospesa. Intanto, la Grande Sposa Reale, temendo di essere spodestata dalla nuova arrivata, aiutata dal visir fa rinchiudere con l’inganno Suhad nel ghetto dove gli appestati sono tenuti in quarantena in attesa di essere bruciati vivi per impedire la diffusione della malattia nella città.
Prendo spunto dall’immagine in alto per parlare della scenografia e dei costumi che, tenuto conto che fanno parte di una serie TV e non di un film da sala, non sono poi così male. Non pretendo nemmeno che i geroglifici disegnati abbiano un senso (anche se, quasi cento anni fa, quelli de “La Mummia” lo avevano), ma alcuni errori non li posso tollerare. Sulla stessa parete di un tempio, non si può affiancare il disco solare di Aton alla figura di Anubi e a quella, di tre quarti (!?), di Bastet. E, ancora peggio, non si può scrivere il nome di Tutankhamon come farebbe un venditore di braccialetti del suq di Sharm: t-u-t-a-n-k-h-a-m-u-n. La vera grafia del nomem, o nome del “figlio di Ra”, è quella che si può vedere su una scatola lignea a forma di cartiglio scoperta nella KV62 (immagine a sinistra): “Amon” (Imn), anche se si legge alla fine, è posto all’inizio per venerazione del dio e “ankh” è reso con la croce ansata.
Per quanto riguarda i continui aborti di Ankhesenamon, invece, sono stati trovati due feti mummificati nella tomba di Tutankhamon che appartengono a due bambine nate morte a 5/6 e 9 mesi di gestazione. Gli esami del DNA del 2010 hanno confermato la paternità di Tut, ma ancora non è chiaro chi fosse la madre. È plausibile anche l’invio di Herit in sposa al re dei Mitanni. I matrimoni politici erano frequenti all’epoca e servivano a suggellare alleanze e trattati di pace; però, sappiamo da una delle “lettere di Amarna” che fu Tushratta a donare sua figlia Tadu-Kheba per l’harem di Amenofi III.
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Parte III: “Destiny”
La situazione per Tutankhamon si fa pessima. Lagus trova Suhad viva, ma è in condizioni critiche e comunque sarà strangolata dalla regina; il Sommo Sacerdote è ormai in aperta rottura e annuncia solennemente che il dio Amon-Ra vuole la morte del re; i Mitanni si alleano con gli Ittiti e si preparano all’invasione accampandosi a Qadesh. Forte di una superiorità di 5 a 1, il principe Tis’ada si reca a Tebe portando un’offerta di pace oltraggiosa in cambio di tutti i territori egiziani dalla capitale in su. Come controproposta, il faraone dona al popolo di Tushratta, che sta soffrendo la fame a causa di una grave siccità, 100 cesti di pane, miglio e otri di vino. Questa decisione suicida si dimostra clamorosamente un’abile mossa tattica. Infatti, Tut parte con una quarantina di soldati scelti per una spedizione notturna verso la fortezza Mitanni passando per lo stesso passaggio segreto usato in precedenza per liberare Lagus (il manipolo di eroi che entra furtivamente nell’accampamento nemico è cliché già dall’Iliade) e riesce nell’impresa di uccidere Tushratta ponendo fine alla guerra. Nello scontro, però, si procura una grave frattura della gamba sinistra che s’infetta; nonostante ciò, torna subito a Tebe per celebrare la vittoria e per sconfiggere gli ultimi avversari interni. Ottiene anche questo risultato sbarazzandosi, durante la festa di Ra, di Amun e dei suoi sacerdoti che, invece, erano convinti di partecipare a un attentato nei confronti del faraone. Tutankhamon finalmente ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, ma la soddisfazione dura poco perché la setticemia lo porta velocemente alla morte a soli 18 anni.
Come spiegato in precedenza, tutta la parte dello scontro con i Mitanni è solo un modo per inserire scene di azione nella serie. La causa della morte di Tut, invece, è giusta, anche se vanno fatte delle precisazioni. Inizialmente, si pensava che il giovane faraone fosse stato vittima di una congiura di palazzo per la presenza di una frattura alla base del cranio che, in realtà, è dovuta dalla mano poco leggera di Howard Carter che usò martello e scalpello per staccare la mummia dal sarcofago. Una TAC del 2005 ha individuato la rottura del femore sinistro e la conseguente infezione fulminante che ha provocato la morte in 1-5 giorni di un individuo già debilitato dalla malaria. Altre lesioni alle costole e al bacino sarebbero compatibili con una caduta dall’alto, tanto da portare Chris Naunton a pensare a un incidente da carro.
La storia si conclude con il corteo funebre di Tutankhamon alla presenza della regina e del nuovo faraone Ay che, come ultimo sfregio, lo fa seppellire in una tomba anonima della Valle dei Re invece che nel grande sepolcro monumentale prestabilito. Questa volontà di cancellare la memoria di Tut, al contrario, preserverà la sua sepoltura fino al 1922 e gli porterà fama eterna.
Rimasta vedova e senza eredi, Ankhesenamon supplicò Shuppiluliuma di Khatti di inviarle un figlio come marito. Il principe Zannanzach, però, non arrivò mai a destinazione, forse ucciso durante il viaggio, e Ay divenne faraone. Non sappiamo se l’ex visir abbia sposato la regina; inoltre, nella sua tomba (KV23), è ritratto con un’altra donna, Tiye II. In ogni caso, nella KV62 (nella serie, il progetto originale sembra più il tempio di Hatshepsut a Deir el Bahari) è lui che, come successore designato, è ritratto mentre compie la “cerimonia dell’Apertura della bocca” alla mummia di Tut. Comunque, ormai anziano, Ay regnò solo per 4 anni, seguito da Horemheb, ultimo faraone della XVIII dinastia, che cancellò tutte le tracce dei suoi predecessori appropriandosi degli anni di regno passati e ponendosi direttamente dopo Amenofi III.