Il 31 marzo, quando la sabbia della clessidra di Piazza San Carlo non era ancora completamente scesa, ho avuto l’onore di visitare in anteprima il “nuovo” Museo Egizio di Torino, un giorno prima dell’inaugurazione ufficiale. Grazie all’invito per la preview stampa (eh sì, ormai sono considerato un “giornalista”), ho trovato qualcosa d’inaspettato, un museo completamente diverso da quello che avevo visto in precedenza.
Da mesi, Torino è disseminata di tracce dell’evento. Me ne sono accorto subito, quando, uscito dalla stazione di Porta Susa, a darmi il benvenuto c’era una grande statua di Sekhmet. Tutta la città era proiettata verso il 1 aprile 2015, una data da sottolineare perché, almeno per una volta, si è assistito al rispetto di una scadenza. In poco meno di 4 anni e mezzo, si è riusciti a completare un progetto più che ambizioso che ha portato a un completo restyling degli interni del seicentesco Palazzo dell’Accademia delle Scienze e al raddoppiamento degli spazi espositivi, passati da 6.400 a 10.000 m² grazie all’inglobamento della Galleria Sabauda e alla realizzazione di una nuova sala ipogea sotto la corte centrale. Nonostante la facciata principale sia coperta da impalcature e l’ultimo piano ancora chiuso, i lavori sono terminati nelle tempistiche stabilite, esattamente un mese prima dell’apertura dell’EXPO (e qualcuno, lì a Milano, dovrebbe prendere appunti), per di più, senza chiudere il Museo al pubblico neanche un giorno!
Un successo che si spiega con la natura stessa dell’Egizio. La Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino è il primo esperimento di gestione di un museo italiano con partecipazione di privati; infatti, tra i soci fondatori, oltre a MiBACT, Comune e Provincia di Torino e Regione Piemonte, compaiono anche la Fondazione CRT e la Compagnia di San Paolo che ha fornito la metà dei 50 milioni di euro spesi nel progetto (la stessa somma con cui Della Valle ha finanziato il restauro del Colosseo). E’ triste ammetterlo, ma ormai lo Stato da solo non ha più la capacità (o la voglia?) di badare al nostro patrimonio culturale, cosa rimarcata dal ministro Franceschini presente alla conferenza stampa di fine mattinata.
Sarebbe riduttivo, però, limitare il cambiamento del Museo all’aspetto “formale” della struttura, ora comprendente 15 sale disposte su quattro piani. La vera rivoluzione consiste nel progetto scientifico che, in soli 10 mesi, il nuovo direttore è riuscito a far decollare. Citando proprio le parole del Dott. Christian Greco: “L’Egizio è la seconda collezione al mondo dopo quella del Cairo ma non il secondo museo” perché “un museo archeologico deve fare ricerca”. Il Museo, infatti, tornerà ad avere una missione archeologica in Egitto, proprio come quando, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, l’allora direttore Ernesto Schiaparelli scopriva la tomba di Nefertari e quella ancora intatta di Kha e Merit. Non solo; c’è stato e ci sarà un lavoro di ricerca anche tra le “mura domestiche”. I 6500 reperti esposti sono stati studiati a fondo da Greco e dagli otto curatori egittologi per ricostruire la loro storia, il contesto di ritrovamento e il collegamento con fonti e documenti originali di scavo. Non a caso, ho notato nelle didascalie alcuni cambiamenti nelle attribuzioni dei pezzi.
Grande attenzione è stata riservata anche al rapporto con il pubblico. Come già scritto, ho trovato qualcosa di completamente nuovo, molto simile ai musei anglosassoni; a partire dal logo, moderno e accattivante, che vede le lettere M ed E scritte con l’elaborazione del segno geroglifico “n” (N35 nella lista di Gardiner): il simbolo dell’acqua che mette in relazione i fiumi Po e Nilo. Il sito internet, finalmente rinnovato (anche se ancora in allestimento), ha una bella grafica ed è più chiaro e intuitivo di prima. Per quanto riguarda la visita vera e propria, invece, le audioguide comprendono sei lingue e presto se ne aggiungeranno altre; al tempo stesso, sono disponibili guide per i non udenti tramite applicazioni di Google Glass. La svolta tecnologica continua anche grazie ai tablet con i quali sarà possibile tradurre in tempo reale i testi geroglifici presenti sugli oggetti. Inoltre, per la prima volta in Europa, sono presenti didascalie in arabo nei testi di sala. Un’altra novità consiste nel laboratorio visibile dal pubblico, dove lavorano gli esperti del Centro di Conservazione e Restauro della Venaria Reale. Infine, in collaborazione con l’Istituto IBAM del CNR, sono stati creati spettacolari filmati in 3D che fanno rivivere i momenti delle grandi scoperte di Schiaparelli a partire dalle foto d’epoca.
Date tutte queste premesse, non potevo che essere curioso di constatare di persona ogni novità. Così, dopo aver aspettato l’accredito, sono entrato da un ingresso laterale e ho cominciato la visita in anteprima. Il percorso inizia dal piano ipogeo, continua salendo al secondo piano e si conclude scendendo fino al piano terra con lo Statuario “Riflessi di Pietra” dello scenografo premio Oscar Dante Ferretti. Per l’occasione, quest’ultima sala è stata adibita a sede della conferenza stampa in cui erano presenti i rappresentanti dei soci fondatori della Fondazione Museo: la presidentessa Evelina Christellin, il Dir. Greco, il ministro del MiBACT Dario Franceschini, il sindaco Piero Fassino, il governatore della Regione Sergio Chiamparino, Luca Remmert (Pres. CSP) e Massimo Lapucci (Segr. Gen. Fondazione CRT). Vi risparmio i discorsi di rito delle autorità (anche troppo retorici in alcuni casi) e vado subito “sotto terra”, nello spazio ricavato nella corte centrale, dove, dopo il nuovo bookshop, si trova la Sala 1 dedicata alla storia del museo. Questa prima parte molto interessante racconta la formazione della collezione attraverso le storie dei protagonisti: Vitaliano Donati, Bernardino Drovetti, Ernesto Schiaparelli, Luigi Vassalli, Francesco Ballerini, Virginio Rosa e tanti altri. Qui è possibile ammirare la celebre Mensa Isiaca, primo pezzo del museo (anche se non è un originale egiziano, bensì realizzato a Roma nel I sec. d.C.) ad arrivare a Torino, l’Iside di Coptos e il lunghissimo Papiro di Iuefankh, 18,45 metri di Libro dei Morti, finalmente messo ad altezza d’uomo. Si sale poi con scale mobili verso il II Piano e l’ascesa è allietata dalla vista del “Percorso Nilotico”, altra installazione artistica di Dante Ferretti.
Da qui inizia il classico percorso cronologico, dal Predinastico (4000 a.C.) fino all’Epoca Tardoantica (700 d.C.). Il II piano è diviso in quattro aree (più soppalchi che, per il momento, sono destinati all’esposizione di foto): Sala 2 (Predinastico/Antico Regno), Sala 3 (Tomba degli Ignoti/Tomba di Iti e Neferu), Sala 4 (Medio Regno), Sala 5 (Medio Regno/Nuovo Regno). Personalmente, ho apprezzato molto l’allestimento della Tomba di Iti e Neferu (Gebelein), un grande sepolcro di I Periodo Intermedio composto da 11 stanze affiancate e un porticato che si apriva sulla Valle del Nilo. Nell’attuale ricostruzione, infatti, le splendide pitture sono collocate su pilastri intervallati da una vista del fiume, cosa che dà la sensazione di trovarsi proprio nella tomba.
Scendendo, questa volta attraverso la scalinata originale, si arriva al I Piano, dove sono custoditi i “gioielli” del Museo. Si continua il percorso cronologico con Epoca Tarda (Sala 11), Tolemaica (Sala 12), Romana e Tardoantica (Sala 13), ma incontriamo anche gruppi tipologici: i reperti scoperti a Deir el-Medina (Sala 6 con il meraviglioso Ostrakon della Danzatrice e la Cappella di Maya) e nella Valle delle Regine (Sala 10), la Tomba di Kha (Sala 7), la Galleria dei Sarcofagi (Sala 8) e la Papiroteca (Sala 9; basta citare il Canone Regio e il Papiro Erotico). In modo particolare, le centinaia di oggetti scoperte da Schiaparelli nella tomba intatta dell’architetto Kha e di sua moglie Merit trovano finalmente uno spazio adeguato che permette al visitatore di apprezzarne ogni particolare (anche se la vecchia disposizione ricordava di più ciò che gli archeologi italiani videro dopo l’accesso alla camera funeraria).
La visita termina tornando al Piano Terra, forse quello più spettacolare nel vero senso della parola. La Galleria dei Re (Sale 14a/b) è ormai una tra le “attrazioni” del museo che affascina maggiormente il grande pubblico grazie all’ambiente buio, agli specchi e ai giochi di luce che evidenziano solo alcuni punti delle statue (per questo non apprezzo molto lo Statuario di Ferretti). Perfino Champollion ne rimase colpito definendo questa raccolta di sculture come “una meravigliosa assemblea di re e divinità”. Infine, prima di uscire, colpisce la presenza di un intero santuario rupestre, il Tempio di Ellesija (Thutmosi III) nella Sala Nubiana (15), donato nel 1966 dall’Egitto per ringraziare l’Italia del fondamentale apporto nel salvataggio dei monumenti minacciati dalle acque del Lago Nasser.
Non posso fare un’analisi più accurata perché il tempo a disposizione è stato esiguo, poco più di un’ora che sarebbe bastata a mala pena per un piano. Inoltre, bisognava fare lo slalom tra fotografi e giornalisti e le vetrine erano costantemente illuminate dai faretti di qualche cameraman. Quindi, non vedo l’ora di tornare a Torino per godermi a pieno un vanto per il patrimonio culturale italiano e, per i tempi che corrono, un vero e proprio miracolo.
Per altre foto della preview: Djed Medu – Blog di Egittologia (pagina Facebook)